giovedì 23 settembre 2010

L'arte di farla lunga.


Giorni or sono discutevo con alcuni amici scrittori delle qualità di un'opera narrativa.
La questione era: esiste un qualche complesso di regole, soddisfatte le quali si può serenamente affermare di essere in presenza di un'opera d'arte?

Per certi aspetti sarei tentato di rispondere di sì, se non altro in omaggio alla profonda ammirazione che continuo a nutrire per la retorica classica, e tutte le sue successive declinazioni.
A patto però che tra le tante regole si segua per prima quella più importante, il prestare attenzione massima alla funzionalità di tutto ciò che si trascrive nel testo.
Perché a mio avviso è questo il punto centrale: un racconto non è mai in nessuna circostanza una copia fedele della realtà, per quanto veridici possano apparire fatti e circostante ivi riferiti. In ogni testo ciascun elemento è presente non in quanto mimesi fedele del corrispondente elemento nel mondo reale, ma solo perché deve svolgere una funzione. Ogni testo è soltanto un modello del mondo, quindi una sua sintesi. Se fosse una riproduzione esatta della realtà il narratore si avviterebbe nel paradosso di Borges, stilando una mappa talmente precisa in ogni dettaglio da finire per coincidere con il territorio rappresentato. Non quindi più una mappa, e quindi un modello, ma semplicemente la cosa.

Nel testo dovrebbe dunque esserci solo quello che serve ad assolvere a uno specifico scopo narrativo, e soltanto a quello. Altrimenti si cade ineluttabilmente in quella deriva che gli angli definiscono infodumping, e che da noi si potrebbe volgarizzare con allungare il brodo.

Per esempio, vi è mai capitato di trovare qualcosa del genere?

"Il senatore Marco Lucio Coglione si aggirava bel bello per la Suburra, quartiere tra i più malfamati della Roma imperiale, destinato ad accogliere soprattutto ladri e prostitute, sito alle spalle del Foro ma da questo isolato per tramite di un’alta muraglia fatta erigere da Traiano imperatore, vissuto dal 53 al 117 d.C.
Si arrestò in un angolo poggiando il piede su un gradino di travertino, la pietra calcarea di colore tra il bianco e il giallino in ragione delle diverse cave di provenienza, per lo più situate nelle immediate vicinanze della città. Dopo aver ripulito dai liquami il coturno, scarpa di pregio nata sulle scene ma adottata presto dalle classi patrizie e caratterizzata da un’alta suola di legno, rimosse anche alcuni schizzi di fanghiglia dal costosissimo bordo purpureo della sua toga e si rimise in cammino.
Fu allora che si imbatté in Giacinto il reziario, aitante membro di quella categoria di gladiatori che negli scontri one on one nel circo si battevano contro i mirmilloni armati solo di un tridente e di una rete, da cui il loro nome. Mentre i loro avversari erano protetti da corazza ed elmo, e disponevano anche di un gladio, spada corta e tozza, ed erano detti mirmilloni perché ricordavano nell'aspetto dei grossi pesci, anche se taluni filologi si discostano da tale etimologia preferendone altre.
-Ave, Giacinto!- disse il senatore Marco Lucio Coglione, salutando calorosamente l'amico con un gesto beneaugurante caratterizzato dal braccio destro levato in alto e la mano tesa a dita unite, saluto ripreso poi di recente da diverse formazioni politiche di orientamento conservatore tra cui il Fascismo e il Nazismo, che però se ne distingue per aver introdotto la variante del braccio piegato all'altezza del gomito.
-Ave, Coglione!- rispose Giacinto il reziario ecc. ecc."

Converrà facilmente il lettore su come si possa in tal guisa raggiungere ad abundantiam quelle sette-ottocento pagine che costituiscono ormai la norma di tanti celebrati romanzi, specie di origine oltremare. Ma serve anche a qualcosa il farlo? La discussione rimane aperta.

domenica 12 settembre 2010

Il romanzo sceneggiato.


La caratteristica più appariscente della moderna narrativa di genere è il suo legame con il cinema. In alcuni casi tanto stretto da generare il dubbio che si sia alle soglie di una nuova mutazione del genere stesso: per esempio in un videogioco, dove diventerà sempre più difficile stabilire se prevalga la narrazione o l'immagine.
Questo avvicinamento non è di per sé un fenomeno recente: tra romanzo e cinema è sempre esistito uno scambio, ma di segno diverso col passare del tempo.
Fino alla metà del XX secolo è stata la letteratura a fornire al cinema personaggi e situazioni, un intero corpus di trame, valori e ideologie. Poi progressivamente è stata la letteratura a importare materiali sempre più corposi, fino ad adottare addirittura le tecniche stesse dell'amico-concorrente.
Questo ha portato a sviluppare romanzi di genere, soprattutto nell'area nordamaricana, che sembrano sempre più una sceneggiatura. Non tanto e non solo perché molti di essi nascono già "pensati" in vista di una riduzione cinematografica, quanto perché spesso essi sono già delle sceneggiature semicomplete.
Nel senso che condividono con la sceneggiatura la stessa struttura formale: un testo dove una vicenda viene ridotta solamente a ciò che si vede e ciò che si sente. Nella sceneggiatura infatti non esiste spazio per i "pensieri" dei personaggi: a meno che non si ricorra all'espediente della voce fuori campo, comunque poco diffusa negli ultimi tempi. In un film il pensato deve essere ricostruito dallo spettatore attraverso gli atti e le parole dei personaggi.

La stessa sembra essere diventata una caratteristica del genere, la rimozione del "pensato" dalla pagina. Appare sempre più evidente come un numero crescente di scrittori sembri ritenere che la trascrizione del pensiero costituisca un ritardo, un intralcio all'azione che si è deciso essere la caratteristica fondamentale della narrativa di genere.
A rigore non sembra esserci una motivazione estetica del fatto. Spesso anzi la rapidità dell'azione, aiutata da un sistematico ricorso a elementi topici che equivalgono a frazioni di "pensato" preconfezionate, finisce per tradursi in un semplice impoverimento della narrazione. Non si ottiene alla fine la cinestesia che magari si aveva in mente, ma solo il "racconto di un racconto".
Insomma la narrazione moderna sembra aver sposato le posizioni più radicali della fenomenologia, trasformando ogni racconto in una sorta di verifica in laboratorio delle teorie di Husserl.
E' una situazione che a me pare molto interessante, e che andrebbe analizzata più a fondo: sia per portarla alle sue estreme conseguenze, o per contrastarla con tutte le forze.

mercoledì 1 settembre 2010

Sinfonia - I tre tempi della creazione.


Normalmente la costruzione di un testo narrativo attraversa tre fasi, come nella più classica delle composizioni musicali.

Il primo movimento è aereo e leggero, un largo con brio: la mente sfarfalla piacevolmente tra idee diverse, trascinata qua e là dall'umore del momento senza alcun vincolo. Alla faccia delle mode, degli indirizzi editoriali e dei lettori distratti, tutto un universo di realtà potenziali si squaderna davanti e la fantasia si teletrasporta senza sforzo dall'una all'altra con altrettanta disinvoltura del comandante Kirk: tutte le leggi della termodinamica vengono allegramente violate, epoche e spazi lontanissimi si fondono in una carnevalata kitsch e irresistibile.

Poi una delle infinite possibilità comincia a sgomitare e emerge dal brodo primordiale, annichilendo i rivali con tutta la ferocia della lotta per la sopravvivenza: spermatozoo e ovocita si incontrano e comincia il lavorio perché l'embrione diventi un essere autonomo. Sono i "nove mesi alla puzza" di cui parlava il Belli, una discesa e un lungo stazionamento all'inferno, un lento assai doloroso e interminabile. Le parole, che fino a un attimo prima erano una sorta di deliziose bajadere pronte a soddisfare ogni nostro più piccolo desiderio, cominciano a ribellarsi peggio di un soviet di minatori del Caucaso. Bisogna tenere insieme tutte le fila della trama, cercare di dare un senso alle intuizioni che in un primo momento sembravano così efficaci. La storia che ci aveva sedotto, i personaggi inventati con tanta cura cominciano prima a mostrarsi noiosi come vecchie zie che ripetono sempre le stesse cose, poi importuni come venditori ambulanti, infine odiosi come svaligiatori notturni. La mente che vorrebbe evadere su altre storie si dibatte ancorata a questo blocco di cemento che ti trascina sempre più giù. Famiglia, relazioni sociali, financo i più immediati interessi terreni da curare si diperdono in una nebbia lattiginosa, una pappa su cui grava il continuo rischio della sconfitta. E mentre si combatte per arrivare alla parola Fine, è adesso che spesso nascono gli Incompiuti, relitti alla deriva per abbandono del campo.

Infine il terzo movimento, che si annuncia con un sofferto di archi, legni e tromboni, peggio che nel canto di morte e d'amore di Isotta. Tutte le tossine accumulate durante i mesi di lavoro travolgono le ultime difese immunitarie poste dalla natura a difesa della salute mentale, ed esplode dentro un fastidio viscerale per quello che si è fatto, che ormai si vede come un corpo estraneo, comunque un aborto di cui ci si deve liberare prima possibile, prima di impazzire definitivamente. Tutto sembra sbagliato e incerto, e ci si difende dal tragico senso di inadeguatezza e sconfitta solo ricomnciando a pensare a qualche nuova impresa, che cancellerà nella nostra mente ogni ricordo della vecchia, sovrapponendo alla sua debolezza reale una nuova forza sognata.

Comunque, come si suol dire, sempre meglio che lavorare.