mercoledì 27 luglio 2011

Il futuro come sarebbe dovuto essere












Ho approfittato di questi giorni di calura estiva per rivedermi in dvd tre film classici di fantascienza degli anni '50: Rocketship X-M, Flight to Mars e Destination Moon .
Usciti nelle sale quasi contemporaneamente, tra il '50 e il '51, sono tre spaccati straordinari del futuro di una volta. Quello, per intenderci, che tutti speravamo si sarebbe avverato ben prima della fine del secolo: quando aitanti ex piloti della guerra di Corea, barbuti scienziati alla dottor Zarro e fascinose ricercatrici universitarie si sarebbero imbarcati in improbabili veicoli spaziali do-it-yourself e avventati negli spazi siderei.

Veicoli che erano poi in genere incroci tra la carlinga di un B-29 e il più domestico guscio di una roulotte Airstream, ma tanto chi ci faceva caso.

Dei tre il terzo è quello più attendibile sul piano scientifico, sempre relativamente parlando, con un minimo di rispetto in fatto di leggi gravitazionali. Anche le tute spaziali sono quasi plausibili, abbastanza vicine a quelle delle future missioni Mercury. Ma è anche il più sussiegoso, con i suoi inserti didascalici e le tiratine didattiche alla Giulio Verne (vi ricordate quegli insopportabili capitoli pieni di formule in 20.000 leghe o in Dalla terra alla luna?).

Ma che tristezza, al confronto degli altri due! Il primo in bianco e nero con le scene di Marte virate in seppia, in incredibili colori pastello il secondo ma entrambi con tutti gli eroi giusti, i crateri di Marte di cartone e le marziane in minigonna e tacchi a spillo. Era così che lo volevo il futuro, andare su Marte con il mio bell'Avirex B-3 e il cappello a tesa larga, e magari fumando una Lucky durante il decollo. E non infagottato in un sarcofago di plastica, ridicolo come un palombaro ciclista. Quasi non mi dispiace che alla fine non vedrò mai Marte, molto meglio come me lo sono immaginato.

Mi consolo giocherellando con lo Yonezawa Moonrocket XM-12, orgoglio della mia flotta spaziale. Non si schioda di un centimetro dal pavimento, ma che importa: lo mandano lontano i miei sogni.

giovedì 21 luglio 2011

RomaNoir e New Italian Epic









L'anno scorso ho partecipato al convegno RomaNoir, organizzato dalla Sapienza. Vi si discuteva di New Italian Epic, argomento che nel recente passato ha furoreggiato sulle gazzette. Da buon relatore ho poi raccolto il mio piccolo contributo a braccio, in vista dei successivi atti. Lo ripubblico qui, perché magari d'estate è utile qualcosa per appisolarsi sotto l'ombrellone.



L’epica della New Italian Epic e il bastone di Sherlock Holmes.








Vi ricordate come inizia la storia del Mastino dei Baskerville? Quell’episodio mi è tornato alla mente leggendo nelle pagine teoriche della New Italian Epic la ricostruzione dei fatti politico-culturali che sono, o dovrebbero essere, all’origine del fenomeno in questione.
Allora più o meno la questione è questa: Holmes e Watson sono tornati nel loro buen retiro al 220b di Baker street e si trovano tra le mani un vecchio bastone da passeggio, dimenticato in casa da un misterioso visitatore passato a trovarli in loro assenza.
Holmes, animato dalla sua solita perfidia sadica nei confronti dell’amico, dalle risorse intellettuali infinitamente più modeste delle sue, non riesce a resistere alla tentazione e lo sfida a dedurre qualcosa di utile dall’oggetto in modo da farsi un’idea quanto più precisa possibile del suo proprietario. L’invito è posto in termini cortesi, addirittura zuccherini, ma è chiaro che lo sfotte un po’, invitandolo ad applicare i suoi metodi deduttivi, che ormai l’amico si presuppone dovrebbe padroneggiare. Naturalmente insieme sfotte anche un po’ noi lettori, ma noi lo amiamo e siamo disposti a stare al gioco, anzi ce lo aspettiamo come un rito che si ripete pressoché all’inizio di ogni sua avventura.
Punto sul vivo il povero Watson si lancia in un’ardita interpretazione della cosa, perfettamente plausibile, al punto da renderlo al termine quasi orgoglioso dei risultati e di se stesso.
Peccato che le sue deduzioni siano tutte fallaci, come scornato apprende subito dopo: quando l’amico dice la sua svelando l’arcano, confondendo lui e rallegrando noi che difficilmente accetteremmo di esser anche più tonti di Watson.
È un magistrale, piccolo entr'acte, che nell’economia del racconto ha da un lato la funzione di introdurci nella vicenda, e insieme quella di reiterare una delle convinzioni di base dell’investigatore: la fallacia di ogni indizio, se non sottoposto a un’analisi rigorosa.

Ora mi sembra che con la New Italian Epic ci troviamo come con il bastone di Sherlock Holmes: un complesso di argomentazioni e deduzioni perfettamente plausibili e razionali, ma che affondano su un’errata interpretazione dei fatti.
Premetto di non considerare questo assolutamente un motivo di sottostima del fenomeno: nel caso della NIE siamo infatti in presenza di uno di quei rari casi di movimento d’avanguardia in cui i risultati sul piano dei testi sono senz’altro più interessanti e notevoli dell’elaborazione teorica. E poiché sono convinto che sia sull’efficacia della pagina che alla fine si misuri l’importanza di ogni proposta letteraria, direi che è senz’altro alle opere che andrebbe semmai riservata ogni attenzione.


Non ho qui la minima intenzione né di riassumere né tanto meno di sviluppare i fondamenti teorici della NIE: lo hanno fatto ad abundantiam per primi i suoi teorizzatori e poi i molteplici esegeti, ammiratori o denigratori che siano. Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni, marginali ma spero di sostanza.

Prediamo l’assunto base della teoria: a partire dagli anni ’90 è nata e si è sviluppata in Italia una nuova generazione di scrittori che trae le sue origini dalla caduta del Muro e da Tangentopoli.
Il combinato disposto di queste due contingenze, tanto vicine diacronicamente da autorizzare più d’uno a correlarle con un nesso di causalità, avrebbe scavato nel “clima” narrativo italiano una sorta di crepa, sotto e dentro la quale avrebbe lavorato la nuova scuola, caratterizzata dal recupero e la nobilitazione di tecniche fino allora patrimonio minore e quasi esclusivo della trivialliteratur: un recupero effettuato con tanta forza e decisione da infrangere la barriera dei generi e, attraverso un processo di felice ibridazione, giungere a risultati inattesi e talmente esemplari da imporsi come nuova e pressoché unica maniera possibile di descrivere/interpretare il mondo contemporaneo e segnatamente la nuova realtà italiana.
Ora tale coincidenza temporale è senz’altro verissima, solo che muri e tangenti a mio avviso c’entrano poco o niente. E questo per due motivi: anzitutto la letteratura, o meglio nel nostro caso la narrativa, opera su tempi che sono necessariamente più lunghi di quelli della contingenza politica. Un libro uscito nell’anno X, a meno che non si tratti di un misero instant-book pensato o più spesso commissionato per lucrare alla svelta sull’evento del giorno, è in genere frutto di una gestazione che può anche durare anni.
Di conseguenza gli eventi non hanno quasi mai una ricaduta immediata e necessitante sull’atto del narrare, altrimenti dovremmo chiederci come mai lo scandalo della Banca Romana, alla fine dell’Ottocento, non abbia portato già allora alla nascita di una nuova maniera del narrare.
D’altra parte i fatti ci sono, ma come per il bastone di Holmes, l’interpretazione è diversa: nel periodo in questione avvengono anche due altre cose di diversa natura, che avranno una decisa influenza nella letteratura: una profonda trasformazione del mondo universitario, e un’altrettanto radicale ristrutturazione del sistema editoriale italiano.
Nel primo caso i crescenti elementi di privatizzazione introdotti nel sistema educativo, che sono nei fatti molto meno significativi di quanto non si voglia credere, ma comunque abbastanza significativi, spingono il mondo della ricerca e della didattica a un’apertura su aree che solo fino a pochi anni prima erano pressoché ignorate. Questo perché la proliferazione degli istituti universitari, unita alla necessità di attrarre un numero di studenti sufficienti a garantire organici spesso ipertrofici, reca con sé la necessità di aprire continuamente nuovi corsi di studio oltre a quelli ormai consolidati dalla tradizione.
È così che l’altra narrativa fa il suo ingresso prima timido e poi sempre più deciso sotto le volte dell’accademia, assurgendo progressivamente ad argomento di lezioni, convegni, seminari e addirittura corsi di laurea. Se a questo aggiungiamo un normale ricambio generazionale nel corpo insegnante, si spiega facilmente come la nostra università affronti nel corso degli anni ’80 un processo di ammodernamento frenetico ma anche virtuoso, senza il quale un’iniziativa come quella di RomaNoir qualche lustro or sono sarebbe stata semplicemente impensabile.
L’altra area in cui si fertilizza il terreno della nuova narrativa è quello dell’editoria. Nel giro di pochi anni, attraverso un complesso processo di acquisizioni, fallimenti e riconversioni, il campo dell’editoria si trasforma radicalmente, dando vita a quei grandi complessi e catene editoriali che caratterizzano oggi il panorama di tutto ciò che ruota intorno all’ideazione, la produzione e il commercio dei libri.
Questo processo di rapida industrializzazione, caratterizzato dalla scomparsa progressiva di tutte le realtà ancora sostanzialmente artigianali (un nome tra tutti, la Einaudi che nel 94 viene acquisita dal gruppo Mondadori, perdendo di fatto ogni sua autonomia industriale e culturale) e dall’arrivo nelle strutture direttive di una nuova generazione di manager.
La nuova dirigenza ha una caratteristica peculiare: a differenza di quelle che hanno agito nel settore da sempre, è costituita da uomini e donne che non vengono più dal mondo accademico, come era stato per oltre un secolo, ma da quello dell’amministrazione e soprattutto del marketing.
Questo fatto interrompe una consuetudine appunto secolare: il circuito per certi aspetti virtuoso instauratosi in Italia tra mondo della ricerca e dell’Università e mondo dell’editoria: virtuoso, ma anche a suo moto iugulatorio. Provate a guardare nei risvolti di una qualunque collana edita in Italia fino agli anni ’80 chi fossero i curatori, gli editor, i direttori editoriali: troverete soltanto nomi di professori universitari oppure di artisti o intellettuali comunque legati o accreditati presso il mondo accademico.
Tutto questo si attenua e poi scompare appunto nel periodo in esame: e la conseguenza è che il mondo editoriale, dominato appunto dal marketing, passa rapidamente a fornire non più quello che il lettore dovrebbe leggere, ma quello che si ritiene egli voglia leggere.

Senza questa premessa, appare difficile spiegare come sia stato possibile il sorgere di quello che a mio avviso è il presupposto, non tanto della NIE, quanto di tutta o quasi la narrativa contemporanea: la caduta della barriera prima intangibile tra narrativa colta e paraletteratura, premessa senza la quale non sarebbe stata possibile quella ibridazione dei generi che i sostenitori della NIE pongono giustamente alla base della loro operazione.
Una barriera talmente granitica e strutturata da aver resistito per ben quattro secoli, da quando il buon Ariosto si sentì tacciare di corbellerie il suo sforzo di dar vita a un’opera che cercasse di evadere dalle strettoie della codifica letteraria.
Ma tale caduta, appunto, ha poco a che vedere con il Muro e Tangentopoli, tanto da poter bene essere esemplificata da due fenomeni letterari lontani tra loro di ben quindici anni, diversissimi per intendimenti ed esiti, eppure intimamente connessi ed entrambi a loro modo padri di ciò che seguirà, per i motivi che cercherò di spiegare: Il nome della rosa di Umberto Eco e Gioventù cannibale del gruppo di giovani autori che a lungo si identificherà con il titolo.
Due opere dicevo diversissime, ma che entrambe hanno dato colpi insuperabili alla barriera. Colpi dati da due angolature diverse: nel primo caso è il nome dell’autore a guidare l’attacco, un fior di accademico di tutto rispetto che aggredisce la materia dall’interno, sorprendendo le difese degli avversari proprio nel punto dove meno essi si aspettavano un’incursione.
Nel secondo è invece il nome dell’editore in copertina, quel prestigioso Einaudi che aveva abituato il lettore a ben altre tipologie di prodotti, e che era universalmente ritenuto una garanzia ipso nomine per quanto editato.
Se infatti Il nome della rosa uscito per Bompiani fosse stato scritto da un qualunque pur bravo autore di genere, difficilmente avrebbe attirato un’attenzione maggiore di quanto non facessero all’epoca i romanzi di ambientazione medievale di Ellis Peters, editi però nella molto meno prestigiosa collana del Giallo Mondadori. E se la Gioventù fosse apparsa, invece che col crisma einaudiano, in un qualunque supplemento di Urania (cui secondo logica sarebbe stata destinata solo qualche anno prima) sarebbe presto transitata tranquillamente nel circuito delle bancarelle, insieme a tante altre antologie splatter e di effettacci di analogo tenore.

C’è però un altro elemento importante nella riflessione della NIE: il suo far perno a partire dal nome stesso sul concetto di una nuova epica. È dunque sostenibile l’idea che questo improvviso liberi tutti abbia portato alla nascita di una nuova forma d’epica, come sostengono i membri della NIE?
In un certo senso sicuramente sì, a patto di intenderci sul significato del termine. Se per epico intendiamo un racconto in cui si torni ad affrontare i termini del confronto tra il singolo e la storia, sia nel senso dell’esserne vittime quanto in quello di esserne artefici, allora indubbiamente sì.
A partire appunto dal Nome della rosa, la narrativa italiana contemporanea è tornata a porsi prepotentemente il problema della storia: sia tornando a esplorarne le pieghe più o meno palesi, sia interrogandosi sul suo senso profondo.
Spesso questo interesse ha preso le forme di una rinnovata passione per le teorie della cospirazione, del revisionismo storico, dell’ucronia: tutti modi per lasciar intendere che la storia è tornata ad essere quello che appunto è, un problema.
Anzi, meglio ancora, una struttura labirintica in cui, perso il senso destinale della medesima, azzerata ogni forma di ottimismo positivista sulle sue sorti magnifiche e progressive, incamerato una volta per sempre il senso dell’apocalisse e della sua fine, seppellito definitivamente ogni dio che potesse in qualche modo darle luce e senso, non si può fare altro che perdersi.
Quanto più i narratori della NIE immergono le mani nel calderone della modernità, tanto più spesso le ritraggono inorriditi, per cercare scampo nella fuga: e se la storia è in fondo il riassunto di ciò che è, fuggire dalla storia significa cercare rifugio in ciò che non è più, il passato, o ciò che non è ancora, il futuro. Da cui tante fortunate ibridazioni con il genere fantascientifico o con quello del romanzo storico.

Ma la narrazione di un’odissea nel labirinto, alla ricerca di un’uscita che forse non esiste e tra pericoli e mostri continuamente risorgenti, che cos’è alla fine se non un’avventura? E un’avventura non ha forse, sempre, i contorni di una storia epica?
Verrebbe a questo punto quasi da pensare che sarebbe più semplice riformulare il quadro della NIE nei termini appunto di una nuova narrazione d’avventura. Anche per dirimere i dubbi relativi alla corretta interpretazione del termine popular , specie di suffissoide che normalmente viene accompagnato al termine Epica nelle teorizzazioni della NIE. Certo usato con voluto riferimento alla complessa galassia della pop culture, di cui appunto la paraletteratura insieme con la televisione e il fumetto costituisce gran parte. Ma probabilmente con un occhio rivolto in particolare all’area ispanico-sudamerinda: che certo ha fornito all’immaginario collettivo, attraverso grandi autori come Marquez, significativi esempi di nuove forme di epica.
Mi chiedo però il motivo profondo di tale aggettivazione: qualsiasi forma di epica è in re popolare, non solo nell’accezione in questione ma anche in quella forse più sinistra di volkish.
Se il suo scopo è infatti quello di trasmettere al popolo i valori e le gesta delle élite, avere una veicolazione popolare dei propri contenuti è una sorta di conditio sine qua non: una narrazione epica che non sia nelle forme e nei contenuti popolare semplicemente non è epica. Il conte di Montecristo è una narrazione epica, Dei delitti e delle pene no. Anche se entrambi i testi si confrontano con il problema di una dike sottratta a ogni istanza metafisica e ricondotta nei limiti dell’azione umana laica.
Ma il problema interessante secondo me non è tanto stabilire esattamente cosa intendano per epica i teorici della NIE: come per ogni gruppo che si costituisce o, come nel caso, si riconosce ex post, è ovvio che i suoi sostenitori tendano ad esaltare peculiarità e differenze, sottolineare originalità e differenze rispetto al prima ed eventualmente individuarne di nuove.
Tali analisi sono state già fatte in abbondanza, e chi ne sia interessato potrà fare ricorso all’abbondantissima letteratura in merito.
E poi ha davvero poca importanza chi sia titolato a dire prima io, nel campo dell’evoluzione letteraria: mai come in questo campo esiste sempre un antenato o un anticipatore che si possa sempre chiamare a sostegno delle nostre tesi o al contrario proporre come testimonial a denigrazione di quelle altrui.

Quello che invece trovo veramente interessante è il concetto stesso di epica, recuperato come fondamento di ogni possibile narrazione. In altri termini, viviamo davvero in una stagione che in qualche modo si presti a un ritorno della narrazione epica? Ed è possibile immaginare una narratività dell’immediato futuro che faccia dell’epica la struttura portante del fare letterario?
Io credo che la risposta sia affermativa, in entrambi i casi. E che in questo davvero la NIE abbia colto un tratto essenziale e, a suo modo, davvero d’avanguardia. E come per ogni teorizzazione d’avanguardia, appunto, alla fine è forse più importante il quadro generale della riflessione che non i singoli argomenti portati a sostenerla.
La narrazione epica nasce ogni qual volta una società si trova a dover affrontare un processo di cambiamento tumultuoso al proprio interno: una migrazione, un riassetto delle strutture profonde della propria economia, un ridisegno degli equilibri sociali, una riformulazione dei valori etici di base su cui si fonda il proprio patto di convivenza.
Il tutto necessariamente in un quadro di oscurità e di incertezza, nel quale la narrazione si inserisce per immaginare, proporre, attivare possibili modelli di risposta alle esigenze della collettività.
Ed è sostanzialmente in due modi che questo avviene: nella forma della quest o in quella dell’aventure.
Nel primo caso allorché il narratore immagini un possibile approdo, un punto d’arrivo per l’azione del suo eroe preesistente all’inizio dell’azione, e che ne costituisce da un lato il fondamento teorico e dall’altro lo stimolo costante e necessitante al suo sviluppo.
Nel secondo quando invece tali fondamenti non esistono ancora, ed è quindi nella struttura profonde della narrazione stessa che andranno ricercati, quasi nell’autonomo agire dei personaggi.
Ma entrambi condizionati da un incombente pericolo: il rischio del fallimento totale, fino all’annientamento. Un pericolo che accompagna tutta la dinamica dell’azione, ne permea gli snodi essenziali e crea una sorta di compagno-ombra dell’eroe, un’attesa della fine e dell’apocalisse continuamente rimandata ma mai esorcizzata a fondo.
In fondo l’epica è questo, uno scontro disperato contro l’entropia del sistema, che ineluttabilmente tende a trarre verso il fondo e la sconfitta.
Se adesso pensiamo alla nostra condizione (non saprei nemmeno se definirla ancora post-moderna, oppure in omaggio ai teorici della NIE respingere con sdegno questo termine in favore magari di qualche sorta di neo-modernismo), difficilmente possiamo sottrarci alla sensazione di vivere appunto in un universo di tal fatta.
Un universo in cui l’apocalisse ha assunto il volto, quello sì post-moderno, della globalizzazione.
Un fenomeno davvero epocale, per il quale non riesco a trovare nulla di paragonabile nelle epoche precedenti, se non forse l’arrivo dei popoli indoeuropei nel nostro continente. E di cui solo ora si cominciano ad avvertire tutte le drammatiche conseguenze, soprattutto nei suoi aspetti di totale crollo delle certezze e dei sistemi di valori su cui si reggeva il vecchio ordinamento: terreno fertile per eccellenza al ri/sorgere dell’epica.
In questo senso, davvero, la narrativa del futuro dovrà essere necessariamente epica o, semplicemente, non sarà.
E qui la NIE ha sicuramente avuto un’intuizione felice, consapevole o no lo diranno i tempi e i posteri. Perché dovunque approdi il processo di globalizzazione, che sia un’armoniosa convivenza di popoli diversi in un più avanzato e più giusto equilibrio economico come vogliono i suoi cantori, o non piuttosto un’epoca di nuova barbarie caratterizzata da conflitti spaventosi e da una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza, come più segni lasciano intendere, è certo che la futura distribuzione mondiale delle attività ha già di fatto assegnato all’Occidente il suo estremo ma totale dominio: quello della forma.
Il fenomeno cui assistiamo è infatti emblematico. Mentre in tutti gli altri settori della produzione il trasferimento delle tecnologie sta determinando la nascita di un’industria locale dalle caratteristiche innovative che si pone ormai sempre più spesso prima in concorrenza e poi in antitesi con quelle dell’Occidente, nel campo della produzione di forme avviene il contrario: il cinema, la televisione attraverso soprattutto le sue serie, il fumetto, il racconto di genere si sono ormai imposti monopolisticamente nelle tipologie elaborate qui, e non appaiono in alcun modo sostituibili da altre.
Anzi, semmai è evidente il processo di corsa ad impadronirsi di tali tecniche da parte degli artisti del resto del mondo, prima per riecheggiarle e poi per farle proprie.
E se è molto probabile che saranno proprio i temi epici a caratterizzarla, questa forma del mondo scaturirà appunto dalle forme di epica che la nostra narrativa sarà capace di elaborare. Saremo ormai noi gli architetti dell’immaginario del mondo prossimo, nel bene o nel male. Magari guideremo un’auto indiana, mangeremo sushi e ci vestiremo di pezze cinesi, ma al cinema o tra le pagine saranno sempre le nostre storie quelle che troveremo. Perché ad ogni forma di colonizzazione può far seguito la decolonizzazione relativa, tutte tranne una: la colonizzazione della mente.
E l’impossibilità di liberarsi da una catena non è, a ben guardare, anch’essa un magnifico oggetto per narrazioni epiche? Probabilmente i teorici della NIE non nutrono ambizioni planetarie: ma nel processo tumultuoso di trasformazione che si è ormai messo in moto anche le loro opere si muovono in questa direzione.

venerdì 15 luglio 2011

Ancora su Atlantide



L'amico Luca Crovi mi ha posto alcune domande su La porta di Atlantide per il suo blog. Riporto qui un paio delle risposte, che mi hanno dato occasione per alcune considerazioni e una rapida panoramica delle varie ipotesi sul continente perduto.

Perché secondo te il mito di Atlantide è ancora così vivo, tanto che ogni anno escono decine di studi sulla sua esistenza e soprattutto decine di romanzi?

Il mito di Atlantide è indubbiamente uno dei più suggestivi tra quelli moderni. Infatti anche se la storia è nota dai tempi di Platone, in realtà la sua fortuna si è consolidata solo nel corso degli ultimi cento anni o poco più: e questo grazie soprattutto all’opera di Donnelly e di madame Blavatsky, personaggi entrambi singolari e a loro modo davvero “atlantidei”.
E questo è davvero strano, se ci pensi: finché la vicenda, sulla base dell’enorme prestigio del filosofo greco, è stata ritenuta “storia vera” secondo le sue parole, non ha interessato più di tanto. Qualche scarno riferimento nei mitografi alessandrini, e poi il suo utilizzo soprattutto come pretesto nel Rinascimento per alcune utopie sociali o politiche, e nulla più. Invece, con l’esplodere della narrativa popolare, ecco che questa storia antichissima è tornata prepotentemente d’attualità, come se avesse atteso pazientemente l’arrivo dei pulp per riemergere dalle acque del tempo. Quasi fosse una sorta di “obbligato” con cui ogni narratore pop debba prima o poi confrontarsi, esattamente come nessun musicista può evitare prima o poi la forma sinfonica, né il più informale dei pittori di mettersi alla prova con il corpo umano.
Ma io credo che ci sia in realtà un motivo più profondo, che si accompagna non casualmente al sorgere dell’età della crisi, e ai primi segni di declino della civiltà europea. Proprio negli anni in cui esplode l’entusiasmo per Atlantide si mettono a punto i gas asfissianti e le prime armi si sterminio di massa, e nel cuore stesso del continente si mette in moto la macchina che genererà di lì a poco i suoi mostri più terribili.
È questo che ho cercato di raccontare ne La porta di Atlantide. Che non è assolutamente un racconto su Atlantide, ma intorno ad Atlantide. Non avevo alcuna intenzione di raccontare l’ennesimo ritrovamento: a onta della copertina un po’ fantasy, chi si aspettasse di trovare nel romanzo manoscritti misteriosi, templi perduti nelle giungle amerindie, audaci archeologi-esploratori, vulcani sul punto di esplodere e magari anche qualche dinosauro sopravvissuto è destinato a restare deluso. Niente di tutto questo: quello che mi interessava era raccontare come il mito ha lavorato e lavora tuttora nell’animo di noi contemporanei. Con esiti grotteschi, quando a innamorarsene sono buff creduloni come i membri della società di ricerche atlantidee, o tragici come nel caso di Vanja, che si aggrappa alla leggenda con la forza della disperazione di chi, essendo stata privata di tutto, cerca in un altrove assoluto il riscatto dall’inferno personale che si trascina dentro.


Puoi riassumere ai nostri ascoltatori quali sono le tesi più famose sul continente perduto?

Sprague de Camp, uno dei critici più attenti e acuti del fantastico, afferma che la bibliografia sull’isola perduta è talmente sterminata da essere seconda solo a quella della Bibbia. Non so se sia vero, ma è certo che prima di esaurire anche soltanto le teorie più diffuse si esaurirebbe la pazienza dei lettori. In estrema sintesi diciamo che si danno quattro grandi scuole di pensiero: studiosi che la collocano nel mare, altri che la situano sulla terra ferma, una terza schiera che la relega nel ghiaccio e infine coloro che la situano in una sorta di universo parallelo, separato da noi nel tempo e nello spazio. Insomma in quella regione ai confini della realtà che piaceva tanto a Rod Serling.
I primi si possono permettere un’ampia scelta, data la vastità della superficie equorea: per prima la dorsale Atlantica, ovviamente, da qualche parte intorno alle Azzorre. Questa gode i favori potrei dire dei puristi, di quelli insomma che non vogliono discostarsi in nulla dal dettato platonico. Golfo del Messico e isole caraibiche sono preferiti da temperamenti più inclini al sogno, come i seguaci di Edgar Cayce, mentre spiriti più sobri e razionalisti inclinano verso il bacino del Mediterraneo, tra Cartagine, la Sardegna e la Santorini di Marinatos. Cimbri e Teutoni preferiscono il Baltico, già meta delle loro vacanze, e i più arditi tra loro si spingono fin verso le Orcadi ed Helgoland, su fino alle isole Svalbard. Mentre amanti dei ristoranti etnici, animalisti e mondialisti in genere non disdegnano addirittura l’immenso Pacifico, ove impastano allegramente Maori e isola di Pasqua, Mu e barriere coralline in un improbabile fritto misto degno questo sì di un menù a prezzo fisso.
Quelli che voglio restare con i piedi per terra hanno a disposizione diverse alternative. Le foreste amazzoniche sulle orme del colonnello Fawcett, la pianura messicana con le sue città perdute di Cibola e le vette andine tra Machu Picchu e Tiahuanaco, le luminose caverne tibetane ove si sa che soggiornano i Signori del Mondo, ultimi eredi della razza scomparsa. Oppure le paludi della Florida, e poi l’Islanda e le coste norvegesi, e volendo anche la Nuova Inghilterra con tutte le sue premonizioni lovecraftiane. Tra le Atlantidi non a bagno ma sommerse semmai da liane o sabbie devo dire che i miei favori vanno senz’altro all’ipotesi sahariana di Frobenius, non fosse che per la versione che ne dà Benoit. Anche se un po’ invecchiata, con la sua allure polverosa di dromedari e legionari in chepì, continua secondo me a dividersi con la She di Rider Haggard la palma di miglior racconto sul tema di tutti i tempi.
Col ghiaccio non c’è molto da scegliere: o verso sud, nell’Antartide preistorica e di clima mite del nostro Barbiero, o verso nord, nella Urheimat boreale e ariana dei torvi nazisti. Certo un panorama vetrificato e cristallino, un biancore accecante di nevi eterne non si concilia troppo con la solarità equatoriale del racconto platonico, ma non bisogna essere troppo puntigliosi. Quanto invece alla quarta schiera, di quelli che la collocano nell’iperspazio, nell’inconscio collettivo, in immense bolle trasparenti ondeggianti qua e là o tra le schiere angeliche da cui attingere messaggi di luce e salvezza per via di comunicazioni ultrafaniche, be’, lasciamo perdere. C’è un limite a tutto.

domenica 3 luglio 2011


Qualche tempo fa, nella ricorrenza del centenario della nascita, scrissi un articoletto in lode del grande John Dickson Carr. Lo ripubblico qui, perché oltre ai doverosi elogi al maestro, contiene anche qualche considerazione sul genere che forse può ancora meritare qualche attenzione.

IL CENTENARIO DEL CRIMINE MAGISTRALE.

Magari ne abbiamo sentito parlare tutti, ma alzi la mano chi abbia meno di trenta anni e abbia letto un romanzo di John Dickson Carr. Temo che le mani sarebbero pochine, più o meno quelle dei volontari al battaglione per una corvée cucina: chi ha fatto il militare di una volta sa di cosa parlo. E non credo che andrebbe meglio se chiedessi di Carter Dickson, che poi mutato nomine è sempre lui.
Ed è un peccato, perché JDC, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, è stato davvero uno dei grandi dell’altro secolo. Grande in tutto, a cominciare dalla prolificità. Oddio, magari esagero in pessimismo: forse qualche baldo giovanotto conoscerà senz’altro uno dei romanzi che ha per protagonista il dr Gideon Fell, questa specie di Falstaff sornione e idropico, sbuffante come un mantice sfondato, sempre pronto a sollevare il boccale di birra e a giungere a conclusioni azzardatissime. Che tra l’altro è l’unico tra i suoi personaggi attualmente reperibile in catalogo con qualcuna delle sue avventure, non dappertutto e con qualche affanno. JDC è stato pubblicato quasi integralmente in italiano, ma di tutti i suoi romanzi sì e no una decina sono usciti dal circuito delle edizioni da edicola, per approdare nelle librerie. E chi volesse affrontarne la prima lettura non avrebbe altro da fare che ricorrere al difficile prestito di amici, o a esplorazione di bancarelle.
Per JDC niente di nemmeno lontanamente paragonabile all’edizione critica che Adelphi ha dedicato a Simenon. E invece se la meriterebbe, lui che è stato creatore insuperato di iperbolici enigmi, con due temi ricorrenti come una metafora ossessiva: il delitto nella camera chiusa e il delitto compiuto in condizioni impossibili, per esempio sotto gli occhi di numerosi testimoni, condannati a non veder nulla. Eppure quest’uomo, che non ha inventato nulla di originale, che si è limitato a portare all’eccellenza la formula della detection che aveva altri padri, l’uomo che ha reso omaggio a Conan Doyle fino a farsene biografo e epigono, questo scrittore è oggi il meno invecchiato dei grandi vecchi.
Forse è proprio per quel senso di straniamento costante che attraversa tutta la sua opera, quell’atmosfera artificiale che regna nelle sue ville di campagna, nei suoi castelli tenebrosi, nei sui club così inglesi che più inglesi non si può. Ricorda la sensazione costante di “abbellimento delle cose” che ci trasmettono i film di oggi, in cui un’esasperata post-produzione riamalgama e corregge ogni sfrido nelle luci, nei colori, nei suoni fino a consegnarci non la realtà, ma l’idea della realtà che vive solo nella mente del cinematografaro. Ci sediamo, fissiamo lo schermo, crediamo di essere che so a Londra, e invece siamo solo entrati nel paesaggio mentale di qualcuno. Da un’altra parte.
Anche JDC sembra sempre da un’altra parte. O sul punto di andarci. Un americano che vive in Inghilterra e che ambienta i suoi primi romanzi in Francia: cosa si nasconde dietro questa brama di “altrove”? Sulla personalità artistica di JDC ci sarebbe da fare delle belle esercitazioni, se uno volesse. Però non è che dai suoi dati biografici si possa trarre molto materiale. Viene anzi quasi da pensare ad una sorta di vita segreta e nascosta, a uno che magari abbia fatto davvero parte del Servizio segreto, e dico davvero, non come tanti altri hanno fatto credere.
Probabilmente invece la verità è quella più semplice che viene raccontata nella sua biografia (nota: JDC è uno dei non molti giallisti che ha avuto la gloria di essere biografato, il che è tutto dire). Quella di un grande e assiduo lavoratore della parola, innamorato del suo mestiere. Con quel volto che sembra fatto apposta per spuntare da una copertina, che ricorda tanto quello di David Niven. Con la stessa aria sorniona da vero gentleman inglese che sembra fatta apposta per incarnare alla perfezione il tipo dell’attore brillante o dello scrittore anni Trenta-Quaranta, la sua immagine farebbe la gioia di ogni sostenitore dell’esattezza della fisiognomica.
E cosa c’è dietro quella faccia? Trame incredibili, a profusione. JDC ha scritto molto. È una penna del calibro dei Wallace, dei Rohmer. Dei Simenon. È un Balzac del veleno e della pugnalata. Ha al suo attivo un’ottantina tra romanzi e raccolte di racconti. E tutto questo da solo, perché non risulta che abbia mai fatto ricorso a aiutanti o negri che dir si voglia.
E in più scritti per il teatro e radiodrammi. Prima dicevo che non ha inventato nulla: sono stato ingiusto, perché la formula che JDC mette a punto per i suoi radiodrammi, la struttura narrativa ricorsiva, la cornice della voce fuori campo che introduce e termina l’episodio, la miscela di investigazione e terrore, di razionalità criminosa e intarsi soprannaturali, li ritroveremo poi come schema base di tutta la prima generazione delle serie televisive, da Twilight Zone a Hitchcock.
Un David Niven americano, però. Perché nonostante la sua aria inglese, e i baffetti da pilota della Raf, JDC è americanissimo, nato in Pennsylvania. Figlio di un avvocato, è appena un filo più giovane della generazione di espatriati che viene ad abbeverarsi alle fonti europee negli anni venti. È a partire dalla fine del secolo prima che in America è cominciato il riflusso: i padri come Henry James tornano a cercare le proprie radici, i figli come Scott Fitzgerald vengono a spenderci i loro soldi e a cercare il fantasma della felicità. JDC viene anche lui a Parigi, ma non si innamora della città. Anche se la userà come esotico sfondo dei suoi primi romanzi.
La Parigi disegnata da Carr è una Parigi vista con gli occhi della mente. Una post-produzione, appunto. Sognata, esattamente come la Parigi di Poe. E forse Bencolin, juge d’instruction è il personaggio carriano che più deve all’imaginifico di Baltimora. Sprague de Camp una volta, cercando di definire il genere fantasy, ha formulato una sintesi geniale: il fantasy ritrae il mondo non com’è o come è stato, ma come dovrebbe essere. A me sembra che questa formula possa essere estesa tranquillamente all’opera di Carr, specie ai suoi inizi: JDC racconta il crimine come dovrebbe essere. Si aggira nella città vera, vaga per i suoi caffè e nei suoi teatri. Ne respira l’aria immalinconita dal profumo dei fiori, addolcita all’alba dall’aroma dei croissants che escono dai forni. Ci vive in mezzo ma non la vede. O meglio, la vede ma con gli occhi della nostalgia. La Parigi che compare in It walks by night, il suo primo romanzo che è poi l’elaborazione di un racconto giovanile che il piccolo Carr aveva pubblicato sul giornaletto del College, non è la città reale, la grande metropoli in crisi, lacerata da conflitti sociali insanabili, che si appresta di lì a non molto a votare per il Fronte Popolare.
Quella di JDC è la Parigi misteriosa di dieci, quindici anni prima, quando trionfava il Grand Guignol e nelle sue strade misteriose anche Proust poteva sognare che dietro le imposte chiuse si accendessero vicende fascinose degne delle Mille e una notte. I suoi lastricati umidi, le sue ombre sono le stesse dei sogni di Edgar Allan Poe, e sono il regno di Henri Bencolin, sulfureo dandy e giudice istruttore, come si immagina che possa essere dandy un giudice istruttore parigino. L’uomo che indossa lo smoking come abito da lavoro e si arriccia i capelli ai lati della fronte per alludere maliziosamente agli attributi dei diavoli da operetta. In Bencolin c’è molto proprio del Grand-Opèra francese, ma anche delle pochade criminose che ogni notte vengono allestite nel teatrino de l’impasse Chaptal.
JDC gli dedica cinque romanzi, prima di passare la mano ad altri investigatori. È che l’autore cresce in fretta, l’esotismo giovanile, il gusto per il terribile esasperato lascia il posto all’ironia, al gioco intellettuale. Poe e Conan Doyle cominciano a ritrarsi leggermente, mentre si fanno avanti altri mentori, Chesterton (addirittura omaggiato nel fisico del personaggio di Gideon Fell) e P.G. Woodhouse, tanto ripreso nell’arguzia e nell’affabilità da indurre quasi tutti a credere, quando compare la prima storia di sir Henry Merrivale, che dietro lo pseudonimo anche troppo trasparente di Carter Dickson si celi proprio il papà dell’ineffabile Jeeves.
Nel ‘31 è a Londra, e lì rimarrà per una decisa scelta esistenziale e politica fino al 51, quando se ne torna in America, nel momenti in cui il suo amato paese adottivo sembra sul punto di scivolare nelle grinfie del socialismo reale. E John, troppo legato alla sua idea di un’Inghilterra anteguerra, conservatrice e austera, fa le valige. Si può dire che sul triste transatlantico che lo riporta, in cui pure tra i lustrini recuperati dell’ocean liner ancora si respira qualcosa del trasporto truppe, Carr veda allontanarsi insieme con la costa il paese dei sogni, l’età dell’oro perduta. Un’atmosfera rarefatta, che sembra illuminata a gas anche tra i lumi dei saloni di prima classe, evocata magistralmente nell’incipit di Panic in the Box C. Dove la fiancata del piroscafo, schiaffeggiata dai marosi, non è che la vita stessa, piegata a forza da una natura inutile.
Non è un caso che con il ritorno in America si esaurisca anche la fase più creativa del suo genio narrativo. Non che smetta di scrivere, tutt’altro. I romanzi con Gideon Fell, quelli con sir Henry Merrivale si arricchiscono di nuovi compagni, Carr tenta anche la strada del giallo storico, quando non del romanzo storico tout court, con risultati da par suo. L’ombra del grande Conan Doyle è sempre alle sue spalle, anche in questo.
JDC ha fondato le sue fortune letterarie, come una specie di artista circense, sul tour de force. Il suo assunto è sempre invariabilmente lo stesso: come si può commettere un delitto in circostanze letteralmente impossibili? È famosa la sfida che lo contrappose ad altri maestri del crimine: come si può far sparire qualcuno da una cabina telefonica, in piena luce e sotto gli occhi di testimoni? La risposta è ovvia: non si può. E infatti non è mai accaduto. Come del resto si compulserebbero inutilmente gli annali del crimine reale, alla ricerca di un delitto compiuto in una camera vuota chiusa dall’interno. Nessuno è mai stato assassinato così, per l’ottimo motivo che è impossibile.
Perché il gioco funzioni non c’è tanto bisogno della suspension of disbelief, quanto più spesso di una assurdità in premessa, una contraddizione in termini che non si risolve: per quale motivo al mondo menti lucide di assassini dovrebbero complicarsi la vita costruendo artificialmente un quadro assurdo per poi poterlo sviluppare logicamente?
La realtà è che a JDC non interessa assolutamente la veridicità del contesto, ma concepisce la narrazione come una sfida con il lettore in una sorta di partita a scacchi, di cui sia però lui a fissare le regole. Questo naturalmente potrebbe esser detto di tanti altri autori, specialmente dell’Età Classica. Ma nel caso di JDC c’è qualcosa di più, che lo allontana e lo solleva rispetto ai suoi compagni di strada. C’è una sorta di ossessione. La stessa ossessione che più o meno negli stessi anni, o poco prima, aveva portato Harry Houdini a inventare tutta una nuova forma di spettacolo, l’escapologia, anch’essa fondata su una ossessione privatissima: il bisogno di provare anzitutto a se stessi di non poter essere afferrati da niente e da nessuno. Nemmeno dalla Morte. Anche nelle opere di JDC c’è la presenza occulta, la traccia, di una sorta di esorcismo della morte e del crimine. Carr appartiene alla grande Età Classica non per i suoi personaggi in mantello e cilindro, non per le sue vetture enormi in cui ancora si sale invece di sprofondarci dentro, non per la sua ossessione maniacale per gli algoritmi del crimine. Carr è un classico perché crede ancora nell’Ordine, che la vita abbia un fondo morale, che le cose abbiano un senso. La morte può arrivare soltanto in circostanze eccezionali, perché è un’imperfezione nella trama dell’essere, un convitato inatteso che giunge solo grazie alle occulte predisposizioni di quei neri valletti che sono i criminali. Nel mondo di JDC non esiste la morte banale, quella che ti aspetta all’angolo di una strada per rapinarti della vita insieme con il portafoglio. Nel suo mondo i defunti muoiono per vocazione, seguendo nei modi e nei luoghi del trapasso quelle che sono le loro segrete e disperate predisposizioni. E quando il crimine è risolto e il colpevole illuminato al centro del palcoscenico, è ancora una sorta di patto tra gentiluomini che risolve le pendenze di ordine sociale: senza autorità, senza strepiti, senza sirene e manette, senza soprattutto titoli sui giornali, che potrebbero suggerire l’idea malsana che l’Età dell’Oro è terminata. Un suicidio, e la corda del boia si allontana.
All’americano Carr questa storia della corda insaponata, che fa tanto pirateria del secolo XVII, deve proprio essere rimasta impressa, lui che viene da un mondo molto più moderno in fatto di esecuzioni capitali. E ci torna sopra spesso nei suoi racconti, questa immagine della forca è un specie di leit motiv. Sembra quasi che per lui il delitto non sia altro in fondo che proprio questo, una romantica e sportiva sfida con la corda. Il resto è secondario.
Perché in tutti i romanzi di Carr quello che conta meno è il movente: non che non ci sia, naturalmente. Anzi, qualche volta è addirittura banale: odio, invidia, rancore, denaro. Non è quello che gli interessa: il criminale non è un fattore logico, è un agente del meraviglioso. La sua funzione è quella di scompaginare il nostro quadro di certezze, stroncare la monotonia delle nostre esistenze borghesi. Dare un fondamento attuativo a quella che de Quincey chiamava la più bella delle arti, ma non con gli scopi morbosi e sottilmente decadenti del maestro di Poe e Baudelaire. In Carr il delitto ha la stessa funzione del cilindro del prestigiatore, quella di attrarre i nostri occhi, spalancarli e riempirli di meraviglioso.
Ma purtroppo ha scelto un mestiere più difficile, ha uno svantaggio rispetto ai suoi rivali in frac: l’illusionista disalbera la nostra percezione del reale, e mentre siamo lì a bocca aperta ammirati o sottilmente seccati per essere stati presi in giro, si inchina e ci lascia con un palmo di naso, sparendo tra gli applausi. Lo scrittore invece alla fine ci deve spiegare il trucco, ed è lì che arriva il difficile. C’è il rischio che la reazione sia Ah sì? Così semplice? Oppure un Ma va’, non è mica possibile. È il suo rischio professionale, al quale non può mai sottrarsi. Pensate a un E poi non rimase nessuno senza il capitolo finale. Saremmo di fronte a un miracolo. Con la spiegazione, abbiamo solo un memorabile giallo.
In questo senso le soluzioni di Carr sono sempre ingegnose, qualche volta strampalate, molte volte geniali. La conferenza del dr Fell ne The three coffins sul problema della camera chiusa resta un piccolo monumento in materia, continuamente citato. Certo qualcosa JDC se l’aggiusta un po’: le sue case hanno un pianta comme il faut, c’è sempre un vicolo dove deve stare, una porta dove è utile che sia. Se serve la nebbia c’è la nebbia, e quando ci si sposta i mezzi pubblici funzionano alla perfezione, mai un semaforo rosso, mai una foratura. E qualche volta i suoi fondali sono proprio quelli di un teatro, che salgono e scendono quando serve. Più di uno dei suoi circoli di fans ha provato a ricostruire planimetricamente lo scenario dei suoi racconti, e pare che non ci si riesca proprio. Il più gettonato è lo Skull Castle dell’avventura di Bencolin sul Reno: ci si sono provati fior di architetti, ma insomma non si capisce proprio come dovrebbe essere fatto, peggio di una di quelle assurdità zuccherose di Ludwig di Baviera. Ma che importa? Noi vogliamo sapere se il misterioso Maleger, il diabolico illusionista, sia davvero tornato dal regno dei morti: e se poi dalla torre nord non si può passare a quella sud, che si fottano le torri. Più di settanta anni dopo la prima uscita, chi diavolo ci pensa più? Che ci importa, se la forza del mistero evocato a parole ci trascina lui, ci fa fare tutti i salti di torre in torre che servono?

A proposito: se anche per il Nostro partirà la moda degli apocrifi, e qualche editore vorrà lanciare un’antologia à la Dickson Carr, io mi propongo per rifare proprio Bencolin. Il più improbabile: acuto, charmant, lezioso, misuratamente crudele, irascibile. Senza l’insopportabile e un po’ loffia debordanza fisica di Fell, senza l’etilismo manierato di Merrivale. Un vero signore della Parigi che fu, falso come un baiocco di legno. Straordinario.