giovedì 28 agosto 2014

Armageddon

L'dea dell'Armageddon è di quelle che più hanno infiammato nei secoli l'immagina inazione dei fantasiosi, a cominciare da quella degli scrittori "apocalittici"
Cosa c'è di meglio infatti per riempire le pagine di un romanzo di successo, che strizzare l'occhio agli antichi scrittori di cose sacre, scopiazzando da loro quinti, sesti e settimi sigilli, Anticristi e cavalcanti dell'Apocalisse?
Certo, un conto è poi se a farlo è Ingmar Bergman, tutt'altro conto se ci prova Pincopallino, ma queste sono quisquilie che il benevolo fruitore di massa perdona facilmente.
Il problema però è come al solito un altro, di fondo. Ossia l'idea errata che l'Armageddon sia un evento puntiforme nel tempo, con un inizio, un durante e una fine circoscritti a poche settimane se non giorni. Il romanziere tende a farlo credere, per una pura esigenza di foliazione e di sedicesimi a stampa, ma è un falso clamoroso. In realtà esso è un processo di lungo periodo, per il cui completamento sono necessari anni e anni e generazioni e generazioni.
Insomma distruggere il mondo è un lavoro lungo e faticoso, e non bastano un demoniaco condottiero e quattro cavallerizzi a zonzo. Occorre che ognuno di noi si dia da fare per quel che può, con metodo e tenacia, per aiutare l'avanzamento della macchina.

giovedì 21 agosto 2014

L'irrealista

Non apprezzo particolarmente il realismo, in nessuna delle sue forme. Naturalmente stimo sul piano tecnico e culturale le sue manifestazioni migliori, da Madame Bovary a Roma città aperta,da I Malavoglia a Accattone e tante altre.
Ma amarlo proprio no. Penso anzi che ogni forma d'arte che ponga la mimesi come base del processo creativo sia alla fine di ostacolo al progresso delle arti e della civiltà nel suo complesso. Perché mettendo l'accento su ciò che è, piuttosto che su ciò che potrebbe o dovrebbe essere, finisce spesso per esaltare una breve e miserabile veglia contro le sterminate praterie del sogno. Dimenticando che è l'immaginazione che muove gli uomini, ed è il sogno che dà corpo alla nostra immaginazione. Perché siamo fatti davvero della stessa materia di cui sono fatti sogni, come dice il mago Prospero.
E' anche vero che chi sostiene questa tesi ha quasi sempre fatto una brutta fine, chiudendo spesso in manicomio la sua parabola esistenziale. Ma che gran bel manicomio deve essere, quello in cui si può passeggiare sotto braccio con Hoffmann, Poe, Lovecraft, Buzzati...


mercoledì 20 agosto 2014


Il 20 giugno del 1937 partì da Istres la corsa Istres-Damasco-Parigi, un raid aereo che la Francia aveva organizzato per celebrare il decennale della trasvolata atlantica di Lindbergh.
Alla corsa parteciparono equipaggi italiani, inglesi e francesi, e fu vinta da tre Savoia Marchetti SM79 della squadriglia dei Sorci Verdi, che percorsero le due tratte alla media eccezionale per l'epoca di oltre 400 chilometri l'ora.
Per l'occasione la livrea degli aerei era stata ridipinta in rosso, il colore dell'Italia nelle corse internazionali.
Tra tante celebrazioni del nulla mi sembra giusto ricordarlo, e vi aggiungo pure un selfie scattato sul campo d'aviazione.

martedì 19 agosto 2014

Decadenza

Un tempo, quando il mondo era migliore e l'Europa splendeva, le biciclette avevano un sesso, esattamente come tutti gli altri esseri viventi.
Esisteva la bicicletta per uomo, solida e imponente, e quella per donna, più snella e aggraziata. La prima dotata di una decisa canna trasversale, pensata per l'uso di calzoni e virili avvii alla bersagliera. La seconda con il telaio adatto a essere condotta con gonne vezzose, mostrando senza esagerare un tanto di gambe piacevole e suggestivo nell'atto di avviare la pedalata di lato, con un saltello.
La canna maschile consentiva inoltre l'eventuale trasporto di una fanciulla di non eccessive dimensioni (meglio se per brevi tratti e in discesa), e soltanto chi ha provato l'estasi di pedalare nel vento con in bocca le chiome profumate dell'essere amato, sa di cosa parlo.
Anche i relativi abiti erano rigorosamente distinti. Per lui preferibilmente pantaloni alla zuava, per non intralciare l'azione della guarnitura. In alternativa era consentito l'uso di mollette da risvolto: la Brooks ne fa ancora di splendide, ma bisogna farle venire da Londra.
Per lei invece la gonna di tweed o plissé, e scarpe da bebè d'estate. D'inverno niente bicicletta.
Poi si è deciso che per risparmiare la bicicletta dovesse diventare unisex, e ne è venuto fuori questo mostriciattolo senza carattere, insipido come un formaggio al tofu. E anche l'abbigliamento ne ha risentito, strizzando il ciclista in tutine da étoile del Bolshoi, che c'è solo da vergognarsi a trovarcisi in mezzo.
Insomma siamo riusciti a rovinare pure il cavallo di ferro.

venerdì 15 agosto 2014

L'economista riottoso

Non finisco mai di stupirmi di fronte agli "economisti" che suggeriscono di ridurre la spesa pubblica per scatenare la ripresa. Ossia contrarre la domanda di beni e servizi da parte delle Stato per lasciare spazio all'iniziativa privata, che dovrebbe da sola sopperire a tutte le manchevolezze del pubblico.
Eppure se c'è una cosa evidente nella storia, è che dal momento in cui i primi ominidi scesero dagli alberi e dettero vita alle prime forme primordiali di attività economica, è sempre stata la domanda pubblica a pilotare lo sviluppo.

E' la richiesta di spade da parte del Re che avvia la fucina del fabbro del villaggio. E' la necessità di costruire il palazzo o il castello del Re che mette in moto la fornace, spinge il taglialegna nel bosco e poi il carbonaio a darsi da fare. E' per vendere merci pregiate al Re e alla sua corte che si muove il mercante per terre lontane, è per soddisfare le ambizioni guerresche del Re che il mastro d'ascia costruisce le navi. E tutto questo avviene grazie alla moneta coniata dal Re, con tanto del suo profilo sopra.

Soltanto dopo, nel tempo libero e con i proventi della prima commessa, il fabbro fucina anche forchette e cucchiai, il fornaciaio fabbrica mattoni per il condominio del privato cittadino e piatti per l'oste sotto casa, il mastro d'ascia costruisce la barchetta per il pescatore, il mercante vende le pezze avanzate alla donnetta e via via nasce il mercato.
Ma in assenza di una domanda pubblica iniziale non si innesca alcunché, e cadendo questa anche il mercato privato si inaridisce e declina.

Chi si oppone a questa evidenza cita l'esempio degli Stati Uniti. Ma l'esempio semmai conferma il contrario: perché è vero che lì per motivi del tutto particolari l'economia si sviluppò inizialmente grazie al mercato, e treni, petrolio e edilizia nacquero grazie all'iniziativa privata. Ma questa era già collassata nel 1873, e ancora venti anni dopo non era uscita dalla depressione, da cui non si riebbe se non con la domanda pubblica di armi e annessi per la prima guerra mondiale. E comunque il mercato collassò di nuovo appena dieci anni dopo, e ancora una volta fu la domanda pubblica di strumenti per la seconda guerra che riuscì a rialzarlo.

Il ciclo di grande espansione economica 1945-1990 fu determinato dalla richiesta di forniture da parte del complesso militare-industriale in lotta con l'URSS, riducendosi il quale alla caduta del Muro il libero mercato collassò di nuovo. Clinton nascose la crisi con giochetti contabili, Bush la tamponò con la guerra in Iraq e i prestiti cinesi, Obama ci si è trovato in pieno.
A conforto dell'iniziativa privata si cita a volte l'esempio di start up di singolare successo, come per esempio la Apple. Ma con tutto il rispetto per il genio di Steve Jobs, l'Apple non sarebbe stata possibile senza l'IBM che aveva posto le premesse per il computer di massa. E l'IBM non sarebbe stata possibile senza le commesse pubbliche che le affidarono via la meccanizzazione del sistema postale e della Social Security, oltre ai numerosi e lucrosi appalti del Pentagono.

Eppure ancora ogni tanto viene fuori un bello spirito che chiede la riduzione della spesa pubblica. Forse è come per i sostenitori della terra cava: magari hanno trovato davvero l'accesso all'immensa caverna, ma hanno lasciato laggiù il cervello.

sabato 9 agosto 2014

Declino della globalizzazione.


Credo che si possa ragionevolmente sostenere che tutte le crisi che si stanno susseguendo in questo scorcio di inizio secolo, al netto del loro carico di orrori e sofferenze, hanno almeno un tratto positivo che le accumuna: sono tanti chiodi sulla bara della globalizzazione forsennata.
Un'idea che, ingenua nella sua prima formulazione, correva il rischio di trasformarsi in un inferno orwelliano se portata alle conseguenze auspicate dalle grandi corporation multinazionali.
Ingenua, perché l'idea dell'uomo cosmopolita, "civis mundi", poteva andar bene nel 700, tra gentiluomini in parrucca e culottes seduti ai tavoli del café Procope a bersi delle gran tazze di cioccolatte. Ma trasportata ai giorni nostri avrebbe significato solo ritrovarci tuti a vivere in uno sterminato Alabama, a ingozzarci di hamburger e germogli di soia geneticamente modificata e ad ascoltare rapper ciccioni ventiquattro ore al giorno. E la domenica tutti al cinema con l'ultimo fregnone di supereroe Marvel.
Certo, sarebbe stato meglio se fossimo stati noi europei a contrastarla, mettendo in campo gente come Shakespeare, Leopardi, Mahler o Corto Maltese, e non i tagliagole dell'Isis, l'arcigno Putin o i bancarottieri sudamericani. Ma a volte le cose vanno come vogliono loro.