domenica 8 marzo 2015

Filosofia della composizione.

Viene chiesto spesso al narratore, soprattutto di vicende storiche (siano esse gialle, nere o a mezza tinta) quanto di "vero" ci sia nelle sue storie, e quante e quali ricerche abbia effettuato per esser certo di quello che racconta.
Sono domande perfettamente legittime, ma anche ingenue: al narratore - se è tale e non un professorino frustrato o mancato - non importa assolutamente nulla della "verità" in senso fattuale. Tutti i suoi sforzi si concentrano nel tentativo di rappresentare non ciò che è vero, ma ciò che "sembra" vero al personaggio che in quella pagina interagisce con i "fatti".
Quando in Cabiria il prode Maciste irrompe nel tempio cartaginese per strappare l'infante all'orrendo destino, noi sappiamo benissimo che il tempio è di gesso, l'orrenda statua fumigante di Moloch null'altro che cartapesta, e i sacerdoti dal sinistro profilo semita dei figuranti rimediati nei quartieri popolari di Torino. E soprattutto, se siamo almeno orecchianti di storia vera, sappiamo pure che i cartaginesi erano meno barbari e che la statua del dio in quelle forme è soltanto un'invenzione di Borgnetto e Innocenti, gli scenografi del film.
L'importante però E' CHE NON LO SAPPIA MACISTE! E che soprattutto il personaggio si comporti sotto i nostri occhi come se davvero si trovasse di fronte a un terribile idolo cartaginese, perché è la sua reazione che rende "vera" nella nostra mente la scena cui assistiamo.
In quel momento, per noi, quella è Cartagine, più vera di quanto non sia mai stata e di quanto non possano rivelare mille studi e stratigrafie archeologiche. E guai a quella meschina guida turistica che cercasse di strapparcela con la scusa che così non è mai esistita.