sabato 16 ottobre 2010

Genere e livelli.


Mi trovo spesso a discutere dei rapporti tra narrativa di genere e letteratura "alta".

E' un tormentone a cui è praticamente impossibile sottrarsi, lettori o scrittori che ci si trovi a essere, per lo meno da un paio di secoli.

Da quando appunto la narrativa di genere è apparentemente nata. Dico apparentemente, perché sarebbe più corretto dire: da quando ha cominciato ad assumere una sua veste autonoma nel panorama narrativo.
Perché in realtà il "genere" è antichissimo, verrebbe da dire che è nato con i primi vagiti dell'umanità intorno ai fuochi delle caverne. O sotto le chiome degli alberi delle savane, a giudicare dagli ultimi ritrovamenti.
E spesso ripeto anch'io la vulgata, un po' per pigrizia e un po' per quieto vivere: il genere deriva dalla letteratura colta, ne assume temi e stilemi e poi li semplifica, li schematizza per adattarli a un pubblico di massa un po' sempliciotto e frettoloso. Un pubblico per intenderci che si troverebbe in difficoltà con il Macbeth, ma che invece può più serenamente godersi la Fiamma del peccato.
Insomma il genere sarebbe una sorta di Terzo Stato che si contrappone all'arroganza dell'Aristocrazia letteraria, le sfila la culotte e la riadatta a se stesso in forma di brache, più o meno simili.

In realtà però non sono affatto convinto che le cose stiano così. Credo anzi all'esatto contrario: il genere è il grande serbatoio, il brodo primordiale della narrazione, un deposito informe di personaggi, vicende, emozioni, da cui di tanto in tanto zampillano fuori opere che per caso o per maestria degli autori abbandonano il pentolone per assurgere ai piani nobili della cultura, attraverso un'azione di affinamento degli ingredienti.
Ma l'origine di tutto è sempre quella. E' dall'Opera dei Pupi che viene fuori il Furioso, non viceversa. Con buona pace della critica romantica e neo, il genio è ispirazione, traspirazione ma soprattutto attenzione a quello che già c'è.

1 commento:

Fabio Appetito ha detto...

trieScrivere un'opera straordinaria, di raro spessore filosofico e poetico, che non riesce ad arrivare all'anima di tutti, perde di utilità. Di funzionalità.
Come lei ben disse, in una lezione, "non si scrive per se stessi, ma per gli altri".
Si deve trovare un punto di incontro tra lo scrittore e il lettore, un passo equo che direziona l'uno verso l'altro. Al centro, come banchetto di nozze, ci deve essere la comunicabilità e la comunicazione.
Poi sta allo scrittore preoccuparsi di comunicare cose "alte" e al lettore di apprenderle e farne buon uso.