domenica 7 luglio 2019

L'economia spiegata a Pinocchio.



Rivoltosi per avere giustizia al Giudice della città di Acchiappa-citrulli, Pinocchio riceve invece una sonora lezione di Diritto Applicato nel Belpaese: e se Collodi sia stato più antiveggente o pessimista è riflessione che lasciamo ai lettori.
A prima vista sembra che il povero burattino venga condannato per un episodio di insensatezza che è poi diventato proverbiale, tanto da essere tuttora additato ai pargoli di tutto il mondo come esempio negativo proprio di ciò che non deve essere fatto quando si dispone di un po’ di denaro, simbolo stesso della follia economica assurto nell’immaginario collettivo a paradigma di stolidità.
Ma perché tanto accanimento giudiziario contro il povero burattino? C’è un vero mistero dietro questa sentenza senza appello, degno di essere investigato. Parrebbe dunque che Pinocchio finisca in prigione come punizione della sua sciocchezza: nel paese dei furbi la credulità è reato penale, e non c’è pietà per i Calandrini. Eppure proprio in questo stesso paese nessuno mai è finito in prigione per ben più spaventose balordaggini nel campo economico, che anzi vengono tuttora magnificate e sostenute apertis verbis. Nell’apologo burattinesco si nasconde invece un piccolo trattato di economia in ultimi esempi, su cui vale la pena di soffermarsi a riflettere. Perché l’insegnamento che possiamo trarne è che la sensatezza economica differisce dall’immediato buon senso, e che anche troppo spesso azioni apparentemente ovvie e pigramente condivise si rivelano rovinose per le conseguenze che ne derivano.
Prendiamo il tormentone della redistribuzione del reddito attraverso la leva fiscale. Sembra l’uovo di colombo: tassiamo i ricchi e diamo il ricavato ai poveri. I ricchi saranno solo un po’ meno ricchi. I poveri cesseranno appunto di essere poveri. Tutti saranno contenti.
Ora, se l’esperienza degli ultimi cinquantamila anni ha insegnato qualcosa, è l’inefficacia di questa ricetta. Per quanto suggestiva ed eticamente nobile, purtroppo semplicemente non funziona. Perché o la tassazione è blanda, puramente di facciata, e allora essa risulta ininfluente ai fini che si propone (non dobbiamo infatti trascurare gli altissimi costi di raccolta che lo Stato moderno affronta per organizzare il suo sistema impositivo: non potendo ricorrere ai gabellieri armati di frusta che popolano i sogni erotici di certa sinistra, dovrà organizzare un costosissimo sistema di intelligence, per di più esposto a tutti i rischi di corruzione e di malaffare che abbiamo visto in tempi recenti e che nei fatti vanificherà in modo pressoché totale i vantaggi dell’imposizione).
Se poi la tassazione è imponente, essa ottiene soltanto l’effetto paradossale, impoverendo i contribuenti, di ridurre in breve il gettito complessivo delle entrate, con effetti catastrofici. Pinocchio, dopo essersi grattato la zucca, avrebbe potuto raccontare al Giudice la favola dell’ICI. Quali sono stati gli effetti pratici del balzello? Anzitutto la caduta dei valori immobiliari, a seguito della corsa alla vendita delle abitazioni non necessarie a fini abitativi. Questo perché si è elegantemente trascurato che in Italia il grosso delle case non appartiene, come in altri paesi europei, a grandi società immobiliari o allo Stato, ma alle famiglie. Case dunque poste in vendita a basso prezzo, ma che i poveri, appunto in quanto poveri, non possono però egualmente comprare.
E se si vendono case, nessuno pensa a costruirne di nuove né tantomeno, in chi medita di disfarsi di un bene, nasce l’idea di investirvi risorse in lavori di manutenzione o di ammodernamento. Da cui il blocco dell’edilizia, e la necessità per il governo di correre a far costruire di corsa qualche centinaio di chilometri di autostrada, per dare un po’ di lavoro alla cantieristica sull’orlo della bancarotta, investendovi buona parte se non tutti i proventi della gabella. Da cui l’ulteriore beffa del mancato aumento e anzi della contrazione delle case date in affitto, perché nessuno è disposto ad impegnare a rendimento costante un bene di cui è prevedibile l’aumento degli oneri in futuro. E non è finita, perché paradossalmente la contrazione di liquidità delle famiglie, causata in non piccola misura da questa crisi della rendita immobiliare, deprimendo i consumi, abbassa l’inflazione e rende la lira più forte: rendendo quindi ancor meno necessario e appetibile ogni investimento in immobili destinato, in regime di valori monetari costanti, a non più rivalutarsi e a essere gravato di spese. Da cui una deviazione drastica del risparmio verso la rendita finanziaria, quando non verso decisamente la via dell’estero, implicitamente aggravando la crisi occupazionale e in definitiva la povertà dei poveri: che era appunto quello che si voleva evitare e contro cui si era partiti con trombe e fanfare.
Né è sostenibile la tesi che, sparito l’intervento privato, la mano pubblica possa sostituirsi, grazie ai fondi forniti dalle imposte. Questo sarebbe possibile (e lo fu in una certa misura nell’America rooseveltiana) in un paese con basso debito pubblico. Ma in Italia il denaro rastrellato deve essere impiegato forzosamente per la riduzione del debito e per spese correnti, e non va assolutamente ad investimenti se non in misura marginale e trascurabile.
Ma il nostro Giudice scimmione (che ricorda tanto altri autorevoli cacasenni oracolari) potrebbe a questo punto sentenziare che lo scopo dell’attività economica, in uno Stato democratico, è meritoriamente duplice: produrre ricchezza e provvedere alla equità sociale attraverso la sua redistribuzione. E che quest’ultima, in quanto atto etico, va perseguita in ogni caso, prescindendo persino dalle sue implicazioni economiche: fiat jus, pereat mundus.
Ora, a parte il fatto che nel mondo che perisce ci sarebbero per primi proprio i più deboli, cioè i poveri, resta il non trascurabile particolare che la redistribuzione forzata è sbagliata anche perché non raggiunge affatto i suoi destinatari ovvi, ossia appunto i poveri. È infatti ineludibile la conseguenza che, affidando la redistribuzione non alla ‘naturalezza’ del mercato, ma a strutture a questo scopo preposte, per una piccola quanto drammatica leggina di sociologia spicciola saranno appunto tali strutture a intercettare gran parte delle risorse e impiegarle per il proprio mantenimento: come dire che il primo beneficiario delle attività di Robin Hood è appunto lo stesso eroe in calzamaglia e parenti, così come notoriamente il popolo meglio alimentato dalla FAO è il popolo dei suoi dipendenti.
Il fatto è che l’idea di redistribuzione della ricchezza intesa come variabile da introdurre nel sistema economico attraverso una qualche forma di pianificazione è essa stessa un non senso: qualsiasi ricchezza, comunque prodotta, viene sempre in qualche forma redistribuita. Fatta esclusione per l’immaginaria e felice Paperopoli, ove appunto le ricchezze confluiscono per strade misteriose ma certe solo nel forziere di Paperone, in ogni altro gruppo umano del mondo reale, dalla piccola comunità di aborigeni australiani fino agli abitanti di una metropoli occidentale, non è nemmeno pensabile una forma di ricchezza che prescinda dalla sua circolazione e quindi, nei fatti, da un qualche processo di redistribuzione.
E questo per l’ottimo motivo che la ricchezza ha senso solo nel momento della sua utilizzazione attraverso il consumo: immaginare una ricchezza sottratta al suo impiego è immaginare una ricchezza soltanto teorica, come possedere una miniera d’oro sulla luna. Provate ad offrirla in banca come garanzia per un mutuo fondiario: magari quella miniera esiste davvero, sta là, è un bene reale, ci sono pure le particelle catastali e le fotografie della porta scattate dal telescopio Hubble. Solo, in quanto irraggiungibile, essa è sottratta alla possibilità di consumo e quindi nei fatti condannata ad una pura virtualità.
Ma poiché ogni sistema economico deve essere reale, non esiste alcun sistema economico che in qualche forma non eserciti una redistribuzione della ricchezza prodotta. Anche la ‘corrotta’ corte di Versailles provvedeva ad una capillare redistribuzione della ricchezza: lo faceva acquistando vestiti, gioielli e profumi (basta leggere un bellissimo romanzo, Il Profumo di Suskind, per farsi un quadro estremamente preciso dell’importanza del futile nei cicli economici), pagando - sicuramente male - lo stuolo di servitori di cui si serviva ed alimentando così la circolazione della ricchezza da questi ai loro subfornitori, ai contadini e via via fino alle forme residuali destinate alla beneficenza, che pure assorbivano una quantità di risorse superiore a quanto si potrebbe oggi pensare. E che la redistribuzione fosse totale è certificato proprio dall’immenso deficit della Corte di Francia: se il Re non avesse appunto drasticamente redistribuito il proprio reddito, per quale motivo avrebbe dovuto indebitarsi?
Per cui predicare che occorre redistribuire la ricchezza è tecnicamente un non senso: perché la ricchezza si redistribuisce sempre. Il fatto è che la redistribuzione può avvenire in modi molteplici, il peggiore dei quali è il semplice trasferimento di liquidità che non scaturisca da alcuna forma di aumento reale della ricchezza per attività produttive. È proprio quella forma, così diffusa nel Belpaese, di cui rimane vittima Pinocchio.
Che cosa succede infatti nella fiaba? Mangiafuoco, che gode di un certo reddito in ragione della sua attività di piccolo imprenditore di marionette, redistribuisce una parte di questo all’indigente Pinocchio, con lo scopo di assolvere ai bisogni primari di assistenza al vecchio padre e istruzione. Sono i famosi cinque zecchini d’oro, moneta chiaramente fuori corso ma sicuramente ‘maravigliosa’ come l’Euro. Il fatto che la redistribuzione avvenga sotto le forme di una libera elargizione e non attraverso la mediazione del sistema fiscale di Pinocchiopoli non muta i termini della questione. Ci troviamo quindi con un Pinocchio improvvisamente dotato di una capacità di acquisto. Egli, da giovane assennato, ripartisce il suo reddito in due parti: uno zecchino viene destinato al consumo (infatti servirà per pagare la cena luculliana consumata all’osteria del Gambero Rosso), azione utilissima per sostenere il mercato interno di Pinocchiopoli; gli altri quattro saranno invece impiegati in una speculazione finanziaria straordinaria, nella Sim ‘Campo dei Miracoli’. Egli è dunque animato dalle migliori intenzioni di questo mondo: vuole mettere a frutto il suo piccolo capitale. Ma essendo il ‘Campo dei Miracoli’ una scatola vuota come una finanziaria offshore con sede legale a Vaduz, quello che Pinocchio crede essere un investimento si rivela in realtà un semplice ulteriore trasferimento di liquidità verso due concittadini privi di reddito: il Gatto e la Volpe. Senza volerlo e a sue amare spese, Pinocchio non ha fatto che contribuire al sistema di protezione sociale di Pinocchiopoli. E il ruolo del Giudice appare quindi simile a quello del Fisco nel Belpaese: assicurare che nulla disturbi il meccanismo di trasferimento così impostato. Nel giro quindi di pochissimo tempo il reddito monetizzato passa dalle tasche degli spettatori delle marionette a quelle dei due astuti compari, realizzando un mirabile esempio di redistribuzione. La lezione da trarne per i contribuenti sembrerebbe quindi quella che il miglior modo di secondare la circolazione della ricchezza e la redistribuzione del reddito sia quella di non fare assolutamente nulla, limitandosi a versare silenziosamente quella parte di reddito che viene richiesta. Ed è certamente questa la posizione del Giudice, che infatti punisce Pinocchio per essersi lamentato di quella che egli a torto considera una disavventura.
Nel motivare la sua sentenza, il Giudice avrebbe dovuto aggiungere che il reale motivo della condanna sta appunto nel punire l’ostinazione del burattino a non voler accettare come naturale quella forma di redistribuzione del reddito di cui è stato protagonista. Il transito degli zecchini dalle sue tasche a quelle del Gatto e della Volpe non si discosta molto, a parte la formula pittoresca, dalla ritenuta alla fonte applicata dallo Stato italiano per finanziare il nostro sistema assistenziale. Il susseguirsi ormai con cadenza biennale delle ‘manovre’ fiscali non differisce in nulla dalla semina nel campo dei miracoli: in entrambi i casi un soggetto viene convinto ad utilizzare una parte del suo reddito per la realizzazione di una impresa impossibile, che sia una coltivazione di Zecchini o il risanamento del bilancio dello Stato: impresa impossibile, che il proponente sa benissimo essere tale.
Credendo quindi di arricchirsi, in realtà il povero Pinocchio non fa altro che finanziare per la sua parte il sistema di protezione sociale di Pinocchiopoli. Sistema che in definitiva funziona, visto che il meccanismo arriva a sostenere i redditi reali del Gatto e la Volpe. Anche questa situazione ricorda per molti aspetti alcune recenti vicissitudini dell’economia italiana. Il sistema di protezione sociale (che, si badi bene, in sé e per sé è necessario per l’equilibrio di ogni sistema, e non c’è appunto sistema economico, per quanto primitivo, che non ne possieda uno), è stato improntato non allo sviluppo della capacità produttiva, ma al semplice sostegno, ancorché spesso misero, ai consumi. Prendiamo ad esempio due strumenti possibili di tale sostegno: la cassa integrazione e il sussidio di disoccupazione. Apparentemente sono abbastanza simili: come gli zecchini di Mangiafuoco, essi assicurano un reddito a chi in varia forma, in quanto momentaneamente o perennemente escluso dal ciclo produttivo, non ne ha. Eppure i due strumenti sono in effetti diversissimi tra loro quanto a ricaduta economico-sociale del loro uso.
Dovendo comunque sostenere il reddito, si doveva scegliere una di queste due forme. Puntualmente si è scelta la peggiore, la cassa integrazione, con gli immancabili effetti devastanti sulla nostra economia. Naturalmente essa nasce coi migliori intendimenti che, come al solito, sono i più miopi, all’interno della teoria dei cicli economici prevalente presso i nostri economisti. Il ragionamento è più o meno questo: visto che la produzione è soggetta a cicli di sviluppo e di contrazione, nel corso dei quali essa sarebbe costretta a liberarsi di forza lavoro, creiamo uno strumento collettivo di sostegno per gli anni di magra, in attesa del ritorno della vacche grasse. Ma viene trascurato il fatto che il ciclo economico è dotato di una sua razionalità, che non può essere disattivata a comando: se la domanda di un bene si contrae questo significa (salvo poche eccezioni di natura congiunturale) che l’esigenza di quel bene si va esaurendo e che bisogna semplicemente passare alla produzione di un altro bene. La Cassa integrazione in definitiva ‘imbalsama’ il sistema economico, inducendo nel lavoratore un atteggiamento passivo e attendista, e nel datore di lavoro un comodo modo di eludere la necessità di aggiornamento e di ristrutturazione, addossando al bilancio pubblico il costo di sopravvivenza di imprese collassate.
Perché quindi in Italia si è scelta la Cassa, invece del più giusto e razionale sussidio di disoccupazione? Semplicemente per il combinato disposto di pigrizia intellettuale, insensatezza economica e delinquenza politica presente in grandi quantità nella prima e anche nella seconda repubblica, riassumibile in questo slogan: mentre il cassintegrato è un servo, il disoccupato è un uomo libero. Se anche marginalmente finanziato, esso si trasforma in una sorta di imprenditore di se stesso, meno manovrabile e in grado di scegliere tra le opportunità che il sistema offre, a differenza del cassintegrato che invece resta prigioniero psicologicamente del passato (salvo poi ritagliarsi spazi di autonomia illegale nel mondo del lavoro nero).
Quanti riflettono sul fatto banale che la fortuna di luoghi come la Sylicon Valley poggia anche sul fatto che grazie ai sussidi di disoccupazione una generazione di giovanotti di bell’ingegno ha potuto dedicarsi a sviluppare le proprie idee, invece di dover passare il proprio tempo in attività di vassallaggio presso partiti e sindacati che garantivano la Cassa integrazione? A fondamentale differenza del nostro cassintegrato, l’assistito americano non sa infatti aprioristicamente che tornerà in un modo o nell’altro a fare il lavoro di prima: questo fatto già di per sé costituisce uno stimolo fondamentale all’aggiornamento e allo spirito d’iniziativa, che viene invece da noi mortificato. A vantaggio dell’appartenenza e della militanza. Sia le baronie sindacali che il padronato trovano infinitamente più comodo ancorare la forza lavoro alla struttura dell’esistente. Ma se la diffidenza per le novità sono comprensibili nei secondi (per i quali ogni trasformazione aziendale comporta forti investimenti), resterebbe meno comprensibile il desiderio dei sindacati di incollare la mano d’opera alle imprese, che si spiega però benissimo pensando al meccanismo di finanziamento dei sindacati stessi, basato sull’esazione dei contributi effettuata per tramite dei datori di lavoro.
Resterebbe da spiegare la mancata ribellione dei cittadini a questo meccanismo penalizzante, che ci costringe a ricorrere ad una piccola schematizzazione, rozza quanto si vuole ma purtroppo veridica. I Pinocchi d’Italia non si ribellano perché nel Belpaese, a differenza degli altri tipi di somaro europeo, siamo riusciti a farci mettere sul collo contemporaneamente tutte e due le ideologie premoderne che scorrazzano per l’Europa, il cattolicesimo e il comunismo, che su tutto divergono tranne che sulla convinzione che ogni novità è intrinsecamente pericolosa e che ogni moto degli uomini scatena forme di sradicamento da esorcizzare con tutte le forze.
Pensate se le fabbriche di carrozze avessero potuto avvalersi agli inizi del nostro secolo di sostegni di questo tipo per contrastare l’avvento delle automobili: le nostre città sarebbero ancora percorse da nitrenti tiri a sei, ma al di là di una certa relativa eleganza d’insieme, e della discutibile gioia di poter annusare escrementi equini anziché benzene e di vedere i nostri politici raggiungere i Colli in landò anziché in auto blu, non pensiamo che il nostro grado di benessere ne sarebbe particolarmente avvantaggiato, né che la condizione dei poveri maniscalchi sarebbe particolarmente più felice di quella dei gommisti poveri.
C’è poi un’altra colpa del nostro burattino, che appare ad una lettura attenta del dispositivo della sentenza: Pinocchio, avendo svolto mansioni di cane da guardia, attore nella compagnia di Mangiafuoco e giratore di bindolo, viene anche condannato come doppiolavorista. Pensiamo allora a quel capolavoro di ottusità che è la battaglia contro il così detto secondo lavoro. Di tutte le possibili umane sciocchezze questa è quella che veramente grida vendetta al Cielo. In tutto il resto del mondo, saputo che un suo cittadino è disposto a svolgere un secondo lavoro, lo Stato gli si fa incontro festoso e scodinzolante, incoraggiandolo se possibile ad assumere anche un terzo incarico, e poi addirittura un quarto, se le forze gli reggono. Gli chiede ovviamente di non scaricare sul primo lavoro i costi del secondo, e magari gli estorce qualche soldino aggiuntivo di imposte, ma in cambio si preoccupa di fornirgli trasporti notturni, protezione sulle strade, consulenza e formazione, gli appiccica sul bavero patacche e cavalierati del lavoro, regala encomi e borse di studio ai figli: tratta in altri termini il bi o tri lavoratore per quello che egli è, una collettiva gallina dalle uova d’oro. Il metalmeccanico che nelle ore libere si trattiene a raddrizzare sportelli d’auto ammaccati nella carrozzeria sotto casa realizza un duplice forte vantaggio: arricchisce la capacità di reddito per la propria famiglia, e quindi sostiene il mercato interno; contribuisce a calmierare i costi dell’officina, che può così aprirsi anche ad una clientela più ampia. Agendo poi solo su quote marginali di lavoro, non elimina assolutamente possibili posti di lavoro per altri battilastra che fossero disoccupati: anzi, semmai, facendo profittare il proprio datore di lavoro, crea le premesse per un’espansione delle attività e per possibili assunzioni a tempo pieno, che egli non potrebbe comunque soddisfare. Inoltre, trattandosi appunto di secondo lavoro, egli non viene a gravare per nulla sul sistema previdenziale e pensionistico, ma anzi assume su di sé l’utilissimo compito di riserva di mano d’opera, e camera di compensazione per gli alti e bassi del mercato, che altrimenti si scaricherebbero drammaticamente sui lavoratori monolavoristi. Nel resto del mondo, si diceva: perché nel Belpaese, invece, il nostro eroe elude almeno trenta o quaranta disposizioni di legge e decreti e codicilli e, nonché essere esposto al pubblico ludibrio, è anche, se dipendente statale, passibile di licenziamento.
Ma la lotta al secondo lavoro è da noi solo l’anticamera al programma di riduzione dell’orario di lavoro. Idea questa sacrosanta in termini di civiltà: liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro è impresa meritevole e alta, e Pinocchio ne è tanto contento da partire subito per il Paese dei Balocchi. Ma se è ricca di civiltà, essa non ha però alcun fondamento economico. L’idea che lavorando meno si liberino posti lavoro è insensata, e di gran lunga di più che non gli equivoci sul Campo dei Miracoli: perché confonde il posto di lavoro come luogo fisico della prestazione d’opera con il posto di lavoro come valore aggiunto della prestazione: se invece di lavorare da solo otto ore ci mettiamo in due per quattro ore ciascuno, i posti di lavoro saranno anche due ma il valore aggiunto prodotto sarà sempre lo stesso, da doversi però dividere in due (anzi, se vogliamo essere precisi, leggermente inferiore per le diseconomie legate al cambio turno e alle spese per la produzione del reddito). Inoltre a parità di prodotto il gettito fiscale per lo Stato sarebbe minore. Ma la cosa peggiore è che, in termini globali, due redditi da mezzo milione sono molto peggio di un reddito da un milione intero (e qui il Giudice dovrebbe spiegare appunto a Pinocchio come, prese due famiglie di eguale reddito, risulti molto più ‘ricca’ tra le due quella nella quale il reddito viene prodotto dal minor numero di persone, se non altro per la possibilità degli inoccupati di dedicarsi ad altre attività potenzialmente fruttifere o comunque di supporto all’attività domestica).
Alla luce quindi di questi ben più gravi errori perché prendersela con il povero burattino? Egli è semmai la vittima dei nostri tempi: ingannato da consulenti finanziari senza scrupoli, è stato convinto da un’abile campagna promozionale ad investire in un nuovo campo di biotecnologie: in un epoca di manipolazione genetica, perché escludere a priori che dalla clorofilla possa essere ricavato un po’d’oro? Egli è dunque soltanto uno spirito avventuroso, fiducioso del prossimo e degli eventi, vero sale della terra, altro che testa di legno. E che dire poi dei due spregiudicati pseudo-finanzieri che lo ingannano? Anche in questo caso non facciamoci condizionare troppo da una campagna di stampa prevenuta e di parte. In fondo non hanno fatto che rastrellare una liquidità sottoutilizzata, che sarebbe in breve comunque finita nelle fauci di qualche altro speculatore o nella migliore delle ipotesi a dormire nel libretto di risparmio postale del povero Geppetto.
Che alla fine risulta il vero gabbato della vicenda: prima povero, poi ricco, poi di nuovo povero e mangiato dal Pescecane, senza mai saperlo, verifica su se stesso la verità del detto esse est percepi (che sarebbe poi, chiedendo scusa a Berkeley ‘cuore non vede occhio non duole’), transitando nelle diverse stazioni della dinamica economica senza di nulla avvedersi: come il popolo italiano, che oggi è tra i Grandi e domani sull’orlo della bancarotta, nell’Euro o nell’Africa, a seconda di quel che conviene.
Sia quindi resa lode a Pinocchio e soprattutto al Gatto e alla Volpe: e che poi sul loro conto Collodi sia costretto, per evidenti ragioni di censura savoiarda, ad esprimere giudizi limitativi e a preconizzarne incerti e tragici destini, è cosa con tutta evidenza riconducibile alla sana cautela politico-giudiziaria dell’Autore, che noi posteri sappiamo ben comprendere e perdonare.

(QR 52/53, gennaio/aprile 1997)

giovedì 14 marzo 2019

Madamina, il catalogo è questo - 5


Stasera a turbare i sonni giunge la protagonista de "La fiamma del peccato", titolo ben più intenso e contro-riformista del più cauto "Doppia Indennità" originale, la biondisima Phyllis Dietrichson.

Prima di maltrattare la povera Norma Desmond, il perfido Billy Wilder se l'era presa con lei, una piccola Bovary di provincia, dotata di quella stessa femminile insaziabilità dell'eroina flaubertiana ma accesa a differenza di quella di una sensualità sfacciata e, appunto, fiammeggiante.

Insomma più Salambò che Emma, dalle curve pericolose in grado di mandar facilmente fuori strada lo sprovveduto agente assicurativo Walter Neff, destinato ineluttabilemente a cadere nella rete della maliarda.
Che non è certo uomo di grandi letture -altrimenti avrebbe capito al volo i chiari riferimenti alla tragedia scozzese nella vicenda di cui si accinge a essere co-protagonista- ma esploratore di femminili caviglie questo sì, e anche di altri ombrosi particolari.
La scintilla scocca insorabile, nonostante tutti i tentativi della regia di spegnere i fuochi imponendo alla bellissima Barbara Stanwyck una parrucca presa a OK Il Prezzo E' Giusto.

E la bella Phyllis, metà mantide, metà vittima di un Fato superiore, metà dominatrix in guêpière, andrà fino in fondo portando con sé le nostre peccaminose fantasie maschili.

"Vai da una donna? Portati la frusta!" diceva il vecchio Nietzsche, ma con Phyllis in molti direbbero piuttoso "portale una frusta", e avrebbero ragione.

Addio, Phyllis, ti voglio bene!

mercoledì 13 marzo 2019

Madamina, il catalogo è questo - 4


Che vita tragica e grandiosa, quella della povera Norma Desmond! Condannata da un ribaldo Billy Wilder a immalinconirsi appena cinquantenne in una sorta di mausoleo, mummificata icona di se stessa, aggrappata a un sogno evanescente di gloria cinematografica, nemmeno fosse una veltrona qualunque!
E con invece tutta una vita davanti, ricca di fascino e di avventure, com’è preciso diritto di ogni bella donna appena sugli ‘anta, se solo avesse incontrato un giusto esploratore dei sensi e non quel fesso sceneggiatore fallito Joe Gillis, attratto chissà perché da una sempliciotta di paese.
Ti compiango, sfortunata figlia di un’epoca ingiusta verso il tuo sesso! Oggi Norma impazzerebbe in ogni talkshow, e sarebbe imperatrice di ogni isola di famosi e non. E con appena qualche aiutino chirurgico potrebbe tranquillamente interpretare tutte le Salomè e perfino le Giuliette che volesse, invece di aggrapparsi per un disperato ritorno a vecchi registi tromboni.
Sarebbero i produttori a rincorrerla, e i migliori ballerini di tango a gettarsi ai suoi piedi. Su quello stesso splendido pavimento di marmo, che già vide i volteggi di Valentino.

lunedì 11 marzo 2019

Madamina, il catalogo è questo. 3

La figlia di Fu Manchu.


La Cina non è sempre stata quella inquietante macchina produttiva, vorace e caotica, che turba i nostri sonni di occidentali con la valanga di container pieni di carabattole che scarica nei nostri porti.
Per secoli e secoli essa è stata una terra misteriosa, ricca di tutte le ricchezze ma anche di tutti gli orrori, remoto capolinea al termine di una interminabile via della seta che giungeva a lei dopo mille e mille miglia, attraversando regioni e popoli via sempre più strani e incomprensibili.
Una via che i mercanti percorrevano alla ricerca di sete e porcellane, ma soprattutto di idee. E dopo dei mercanti vennero i poeti e gli intellettuali. E loro cercavano quello che cercano sempre poeti e intellettuali. Le donne.
E sì, non c’è proprio niente da fare. Una vita monastica, senza il conforto di due belle braccia muliebri è ancora concepibile, ma un romanzo proprio no. E una delle principali caratteristiche delle donne dei romanzi è proprio l’essere lontane e quasi irraggiungibili. Lontane e irraggiungibili come la Cina.
Le cose cominciano però a cambiare proprio al volgere del secolo, quando i fatti d’Oriente irrompono nella case degli Europei sull’onda della rivolta dei Boxer. E non passa molto che qualcuno ci pensi a tirarne fuori una storia. Che sarà poi una delle saghe più lunghe e affascinanti della narrativa popolare del secolo Ventesimo.
Infatti per parlare della nostra eroina dobbiamo parlare prima del suo ideatore: scopriremo così che i due, personaggio e scrittore, hanno molte cose in comune.
Tanto per cominciare sono entrambi sospesi tra due mondi. Uno l’abbiamo già visto, è la misteriosa Cina. L’altro è l’altrettanto tentacolare e a suo modo misteriosa Londra, anche se di un fascino per noi più domestico. Qui è arrivato da non molto in cerca di avventure e di sterline un irlandese, certo Arthur Henry Ward. L’uomo è fantasioso, malato di quel malinconico sense of wonder che caratterizza spesso la natura celtica dei suoi compatrioti. Frequenta i circoli esoterici, come la Goden Dawn, in cui brillano le stelle di tanti altri isolani celebri e sconclusionati, come quell’Abraham Stoker che si è dato il nome di Bram al momento di cominciare a scoperchiare tombe di vampiri. Anche il nostro Arthur sembra avere problemi con il suo nome, tanto da trovarsene parecchi, in quegli anni in cui batte le viscere di Londra come scribacchino per le gazzette dell’epoca, e scarica sui tavoli dei redattori pagine su pagine di cronache e colore locale. Tanti nomi da mettere in imbarazzo addirittura i biografi, che a un certo punto non ci capiranno più nulla. Ma tra tanti ne sceglie uno destinato ad avere fortuna (la sua leggenda narra che l’abbia trovato scolpito sulla porta di un castello, durante le sue scorribande): Sax Rohmer.
E c’è bisogno davvero di un nome così, per quello che sta per raccontare. Perché Arthur, rovistando tra i bassifondi della città, si è imbattuto in un personaggio peculiare, che farà la sua fortuna. Nel pulviscolo di strade maleodoranti dove hanno trovato rifugio gli immigrati dal Celeste Impero, tra le rosse lampade dei bordelli e le ambigue porte delle fumerie d’oppio, ha cominciato a correre la leggenda di un uomo tenebroso, una specie di Signore della guerra trapiantato dal Levante, che tutto domina come un imperatore dei bassifondi, temuto e incontrastato tra le gang che si spartiscono il ristretto territorio nell’East End, quattro stradacce dalle parti di Limehouse. Arthur si mette sulle tracce dell’uomo, che risponde al poco intrigante nome di mr King, e con l’ostinazione e lo sprezzo del pericolo tipici della sua razza riesce finalmente a incontrarlo, in una notte nebbiosa, nel vicolo dove tiene corte. La porta di una limousine si apre, e ne scende un uomo in abiti orientali, seguito da una splendida donna che sembra uscire dalle Mille e una notte.
Arthur resta a bocca aperta per quello che vede: “Imagine a person, tall, lean and feline, high-shouldered, with a brow like Shakespeare and a face like Satan, a close-shaven skull, and long, magnetic eyes of the true cat-green. Invest him with all the cruel cunning of an entire Eastern race, accumulated in one giant intellect, with all the resources of science past and present, with all the resources, if you will, of a wealthy government…”
La prosa è imaginifica, ma il concetto è chiaro: una bestia feroce con la mente di un artista. Arthur credeva di scendere nel pantano della sua città, si è trovato davanti al Pericolo Giallo. Esaltato da quello che ha scoperto si precipita a raccontarlo in uno dei suoi articoli. Tanto entusiasmo deve aver suscitato qualche perplessità in redazione, e più di una levata di sopraccigli. Ma del resto i tempi sono favorevoli all’inquietudine. La rivolta dei Boxer, agli inizi del secolo, ha già diffuso l’idea di una Cina riottosa e vendicativa, paziente e spietata come un ragno. Smisurata e pronta a tracimare dai suoi confini. Le alluvioni di paccottiglia di plastica e di scarpacce di finto cuoio sono ancora di là da venire, ma già la Cina ha cominciato a invadere i mercati occidentali con una merce irresistibile: il terrore. E poi c’era già stato Octave Mirbeau, anarchico immaginario, con il suo Le jardin des supplices, che ne aveva dato un’altra immagine, sado-maso e necrofila, spaventosa e affascinante. Il suo racconto scava sotto la superficie esotica, di magnolie e risciò, di buffi codini e di cappelli a cono, per arrivare all’orrore di un mondo totalmente e paurosamente altro, un mondo post-barbaro in cui la ferocia è governata dalla lucidità. È questa la fonte nascosta dell’orrore, da cui attingerà a piene mani Arthur: l’idea che esista un popolo che ha saltato qualche gradino nella scala apparentemente obbligata dell’evoluzionismo borghese, eludendo la consolante convinzione per cui il crescere della civiltà si accompagna sempre all’ingentilirsi dei costumi. Dalle giunche di Shangai e Canton, esattamente come dai macchinosi tripodi di Wells, stanno invece sbarcando i marziani.
Il francese ha preparato le coscienze ad aspettarsi di tutto dalla Cina. Arthur intuisce che mr King non è soltanto un uomo: è un continente. E ne prova tanto rispetto che quando decide di raccontarlo in un romanzo gli sembra che i nomi non vadano proprio bene, per tanta grandezza. E così quando Sax scrive The Mystery of Fu Manchu, il primo di una serie di romanzi, l’anonimo mr King assume il nome dell’antica stirpe imperiale, come Sax ha fatto con quello dei castellani.
Ci siamo dilungati sulla figura di Fu Manchu, perché è ovviamente nella sua ombra che prende corpo l’altrettanto tenebrosa e sfuggente sagoma della figlia. Ma non vorremmo certo trascurare la preziosa creatura, che è qualcosa di ben più profondo e significativo di un semplice partner.
Cominciamo con lei, già duplice sin dal nome: Fah Lo Suee come si appellerà alla nascita, o piuttosto Ling Moy come poi apparirà giovane e affascinante sulle scene londinesi degli anni Venti, spacciandosi per una affascinante danzatrice cinese. Il primo nome significa più o meno Dolce profumo, Fragranza sublime, il secondo in verità non lo so esattamente, ma dovrebbe essere qualcosa come Piccola qualcosa. Ma quel che conta è invece la sua apparizione in un lussuoso vagone di prima classe delle Ferrovie Britanniche, proveniente dal Continente e diretto a Londra.
Sighing again, involuntarily, I glanced up... (è il dottor Petrie che parla, il sodale e biografo del protagonista sir Nyland Smith) to meet the gaze of a pair of wonderful eyes. Never, in my experience, had I seen their like. The dark eyes of Kâramanèh (è il falso nome sotto il quale si nasconderà a lungo la donna, fino all’agnizione finale) were wonderful and beautiful, the eyes of Dr. Fu-Manchu sinister and wholly unforgettable; but the eyes of this woman who was to be my traveling companion to London were incredible. Their glance was all but insupportable; they were the eyes of a Medusa!
Since I had met, in the not distant past, the soft gaze of Ki-Ming, the mandarin whose phenomenal hypnotic powers rendered him capable of transcending the achivements of the celebrated Cagliostro, I knew much of the power of the human eye. But these were unlike any human eyes I had ever known.
Long, almond-shaped, bordered by heavy jet-black lashes, arched over by finely penciled brows, their strange brilliancy, as of a fire within, was utterly uncanny. They were the eyes of some beautiful wild creature rather than those of a woman.
Their possessor had now thrown back her motor-veil, revealing a face orientally dark and perfectly oval, with a clustering mass of dull gold ahir, small, aquiline nose, and full, red lips. Her weird eyes met mine for an instant, and then the long lashes dropped quickly, as she leant back against the cushions, with a graceful languor suggestive of the East rather than of the West.
Her long coat had fallen partly open, and I saw, with surprise, that it was lined with leopard-skin. One hand was ungloved, and lay on the arm-rest-- a slim hand of the hue of old ivory, with a strange, ancient ring upon the index finger.
Non sarà difficile riconoscere in questa sontuosa descrizione i tratti congiunti della duplice origine della donna, tra trucco orientale e abiti foderati di leopardo di indubbia ispirazione siberiana. Perché Fah Lo Suee è figlia di due esotismi, la sottile perfidia orientale e la sognante tristezza russa. Sua madre è infatti una sconosciuta donna delle immense terre dell’impero zarista, certo una gentildonna, viste le ambizioni di riconoscimento sociale che sotto sotto coltiva il non a caso dr Fu Manchu, sempre a caccia di riconoscimenti e titoli accademici. Conosciuta probabilmente a bordo di un lussuoso vagone della Transiberiana, allora il simbolo stesso della modernità che irrompeva nel regno della Celeste Durata Eterna.
Fah Lo Suee dovrebbe essere nata alla fine del secolo XIX. Più precisamente nel 1897, come azzarda Win Scott Eckert nel ben documentato studio dedicato al sinistro cinese, nell’ambito di quella gioiosa esaltazione del non-essere che è il gran circo del Wold Newton Universe.
Ed è sicuramente il frutto di un amore proibito, perché noi sappiamo che la famiglia legittima del sinistro Fu è stata sterminata per errore dalle truppe inglesi durante la rivolta dei Boxer. Trasformando così quello che era fino a quel momento un pacifico e occidentalizzante studioso asiatico in una belva assetata di vendetta, di domino e di sangue.
Nemmeno fosse stato allevato ai più rigidi insegnamenti biblici dell’occhio per occhio dente per dente, Fu Manchu da quel momento non farà altro nei successivi e molti racconti che lo vedono protagonista, che tentare nell’ordine di sterminare la prima famiglia di Nayland Smith, l’uomo che egli ritiene a torto responsabile della sua disgrazia, e quindi soggiogare l’intero Occidente che al colpevole ha dato i natali e la forza per infierire sul grande gigante addormentato.
A partire da The Mistery of dr Fu Manchu del 1913, noi sapremo via via tutto del grande complottatore giallo. Ma della figlia che lo accompagna come un’ombra nelle due imprese invece sapremo invece sulle prime abbastanza poco. Dovremo attendere parecchi romanzi prima che la sua immagine si definisca in tutta il suo fascino morboso e mortale.
Maschilismo dell’epoca e dell’autore, che in un periodo in cui le grandi magioni inglesi sono ancora illuminate a gas è poco disposto ad aprire alle donne una carriera autonoma, fosse pure quella criminale?
Forse. Anche se il buon Sax non poteva essere ignaro della risonanza che proprio in quegli anni riscuotevano personaggi come Mata Hari o la misteriosa Fräulein Doktor, folkloristica spia la prima ma ben più terribile dispensatrice di morte la seconda. E poi uno attentò come lui agli umori e ai pruriti del pubblico non poteva certo anteporre la sua eredità di irlandese cattolico e conservatore al piacere sottile di intrigare con i propri lettori. Un piacere cui non hanno mai saputo resistere nemmeno i più grandi.
No, c’è un altro motivo, di certo. Il problema è che il nostro immaginario è abbastanza confuso, quanto a bellezze d’oriente. E lo era ancor di più negli anni Venti, prima di Internet e dei canali satellitari. Ne sapevamo attraverso fonti confuse, spesso repertori di viaggi immaginari che mescolavano con disinvoltura Uri maomettane e bajadere indù, danzatrici di Bali e geishe giapponesi, creole dalla bruna aureola e polpute sacerdotesse azteche, in un’allegra confusione tra Indie orientali e occidentali che hanno fatto la fortuna di innumerabili edizioni di pulp.
E anche ad Hollywood non dovevano avere le idee troppo chiare. Quando si trattò di scegliere l’interprete di Fah Lo Suee tutte le incertezze esplosero a distanza di appena due anni. Per Daughter of the Dragon, del 1931, fu scelta un’autentica attrice cinese. Anna May Wong, un’esile fanciulla snella e dalle forme allungate come una gatta. Perfetta per il ruolo di copertura che si trova a ricoprire nel film, quello della danzatrice cinese Principessa Ling Moy, però proprio perché autentica non eccessivamente seducente all’occhio occidentale. E infatti nel film è un altro cinese il maschio che se innamora perdutamente fino alla morte, mentre l’eroe caucasico si conserva per la biondina caucasica standard.
E però quando solo due anni dopo si fece il casting per Tha mask of Fu Manchu, film ben più ambizioso del primo, ma che senza il successo dell’altro forse non avrebbe visto la luce, bene in quel caso venne scelta un’attrice come Myrna Loi, certo affascinante e allora nel pieno della sua incantevole giovinezza. Ma che con una cinese aveva tanto in comune quanto con una watussi. Al punto che per renderla credibile il reparto trucco ricorse a tutta la sua professionalità, inventando una fisionomia orientale fatta di lunghe ciglia, unghie laccate e tiare scintillanti talmente improbabili da non essere presenti in nessuna delle autentiche rappresentazioni nemmeno di imperatrici.
Il fatto è che tra le tante cose che noi non abbiamo ancora deciso nei rapporti con la Cina, è se abbiamo a che fare con i discendenti di Gengis Khan o con quelli di Confucio. E se insomma da loro dobbiamo aspettarci furore o illuminazione.
Con Myrna gli sceneggiatori cercano di conciliare le due cose: le assegnano una rassicurante fisionomia occidentale, ma un perfido sadismo che lei scatena nei confronti del malcapitato eroe di turno, nei confronti del quale ella nutre il più classico degli odi-amori. Con il conflitto tra le razze esaltato dalla onnipresente fidanzatina europea che, simile a una Dale Arden nei confronti della giallissima principessa Aura, vince alla fine il confronto.
La povera Fah Lo Suee è insomma condannata a servire la nostra libidine, prima ancora che la spietatezza del padre arcivillain, alimentando i nostri sogni malati di solitudine e lontananza scissa tra due nature in conflitto inconciliabile. Oriente e Occidente mai si daranno la mano, come scrisse quel buon conoscitore dei vizi di entrambi che fu Rudyard Kipling.
Ma in fondo sempre anche lei alla ricerca dell’Amore, come tutti noi anche meno villain: perdutamente innamorata proprio di quel Nyland Smith che è l’arcinemico di suo padre. E costretta a consolarsi con qualche breve avventuretta con personaggi secondari, salvo poi eliminarli senza pietà quando hanno assolto al loro momentaneo scopo di fuchi innocenti.
Ma non che la ragazza limiti i suoi talenti alla sfera erotica. Ne The daughter of Fu Manchu Sax ci scopre un po’ degli altarini del terribile Si-Fan, la misteriosa setta celeste che minaccia il mondo. Qui la ragazza dà il meglio di sé, subentrando al padre nel ruolo di guida. Addirittura assume il comando nel corso di una tenebrosa riunione dei Sette Signori al Cairo. E in Egitto si svilupperà la caccia alla altrettanto misteriosa Tomba della Scimmia Nera, e ai tesori che vi sono conservati. Pietre preziose e gioielli che assicureranno una volta per tutte la supremazia di Fah Lo Suee in un mondo che pure resta inguaribilmente maschilista.
In preda alla brama d’amore che pure la perseguita, Fah Lo Suee si concederà un breve detour con un alleato dell’eroe, l’affascinante Shan Greville. Un amore però subito spezzato dal terribile padre, che interverrà da par suo per riportare la figlia sulla corretta via del male. E all’amato Greville non resterà che consolarsi con l’aver avuta salva la vita, e un meraviglioso anello di smeraldo come dono d’addio (ma soltanto fino alla prossima puntata, perché alla fine Fah Lo Suee lo ucciderà con un bacio avvelenato, perché non possiamo pretendere troppo dal suo sentimentalismo).
Invece lei è praticamente immotale, come ogni divina che si rispetti. Forse perché ha bevuto dell’elisir della vita messo a punto dal padre con sette misteriose erbe asiatiche, forse per altri motivi. Fatto sta che resusciterà più volte da avvelenamenti, colpi di arma da fuoco, annegamenti, e sempre più bella, giovane e affascinante di prima.
E quando poi sembrerà davvero aver raggiunto quel regno delle ombre da cui l’hanno strappata la lussuria del padre e la fantasia di Sax Rohmer, anche se costretta a morire per mano degli sceneggiatori hollywoodiani, risorgerà qualche anno dopo nelle vesti di Sumuru, sua degna erede e del tutto meritevole di essere ascritta alla legittima dinastia di Fu Manchu quanto a infausti progetti per il dominio del mondo.
Ma questa, come si dice in questi casi, sarà tutta un’altra storia.