sabato 5 novembre 2022

 

 


 

Giulio Leoni

IL MODELLO DI LOVECRAFT

 

Eliot, amico mio.

Non ho più visto Richard Upton Pickman. Sembra scomparso nel nulla, proprio quando la sua fama sinistra cominciava a far breccia nel circolo degli appassionati d’arte della nostra città. Ma sono davvero curioso di saperne di più: pensa, quell’uomo freddo, razionale che abbiamo conosciuto, che di colpo si scopre un talento visionario superiore anche a quei Surrealisti francesi di cui si parla tanto. Anche a me è sembrato impossibile, da principio. Stasera comunque tornerò nel suo vecchio studio, nel NorthEnd, per cercarne qualche traccia. Ti farò sapere.

 

«Cercate di sorridere» disse il fotografo spuntando da sotto il panno scuro dietro la macchina. «Se rilassate ancora la mascella verrete nella foto, come dire.. con un’espressione  attonita…» 

L’uomo di fronte all’obiettivo si ricompose, agitandosi nervoso sulla sedia di posa. Le sue labbra sottili si arricciarono per un attimo in sorriso forzato, ma subito tornarono a contrarsi come se fossero fatte di gomma. Sulla lastra smerigliata riapparve la stessa espressione innaturale, proprio nel momento in cui si apriva l’otturatore.

«Ascoltatemi!» esclamò il fotografo, visibilmente infastidito. Estrasse con un gesto brusco la lastra bruciata e la gettò via sul mucchietto delle altre che l’avevano preceduta. «I vostri lettori si faranno di voi un’idea triste, se non collaborate. E invece vogliamo che uno scrittore abbia un’aria, diciamo così, più fiduciosa, allegra! No? Siete uno scrittore, vero?»

L’uomo annuì, tristemente. «E allora? Quando vi mettete alla scrivania, cercherete di scrivere al meglio delle vostre possibilità, no? Ma se vi presentate ai suoi lettori in copertina con questa faccia, chi vuole che si interessi alla vostra opera?»

«Bè.. io…» provò a replicare l’uomo, schiarendosi forzatamente la voce. «Temo di essere proprio così…»

«Ma no che non siete così! No! Vedete? Adesso che mi parlate, che siete tranquillo, la vostra espressione torna normale, il viso riacquista proporzione, direi addirittura nobiltà di tratti. Non sembrano più due facce incollate a metà. Non mi avete detto di discendere addirittura dai Pellegrini? E allora! Su, riproviamo! Fermo…»

Lo scatto dell’otturatore ruppe il silenzio, seguito da un’esclamazione di disappunto. «Ma no, avete ancora contratto le labbra!» tornò a esclamare il fotografo, lasciando cadere sconfortato le braccia lungo i fianchi. Sbuffò, cercando poi di trasformare il soffio nell’accenno di un ragtime allora in voga.  «Sentite, signore, vi parlo con sincerità. Il mio studio ha una certa reputazione, qui a Boston, ho clienti che vengono da tutto lo Stato a farsi ritrarre. Non posso mandare in giro con il mio marchio un’immagine di cui debba vergognarmi!»

L’uomo in posa sembrava essersi fatto più piccolo, sotto il peso del rimprovero. L’altro continuava nel suo fare indispettito. Aveva rimesso bruscamente il coperchio sull’obiettivo, e stava raccogliendo le lastre bruciate. Gettò tutto il mucchio in una scatola di cartone, poi si volse ostentatamente verso la pendola alla parete, gettando un’occhiata di traverso al cliente come se volesse sollecitarlo a congedarsi.

Ma poi qualcosa nell’aspetto timido e indifeso dell’uomo lo rabbonì. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere. «Su, non fate così… sentite mister Lovecraft, ho pensato a un’altra soluzione, se avete davvero bisogno di un ritratto per i vostri libri. C’è un mio amico, un pittore. Molto bravo, soprattutto negli schizzi dal vero, un ritrattista eccezionale. Forse è quello che serve per voi, un artista che sappia cogliere la vera essenza della vostra immagine, e non quella superficiale e fenomenica che necessariamente impressiona la lastra fotografica. Datemi ascolto, andateci, vi scrivo l’indirizzo.»

L’uomo cercò un biglietto, e tracciò rapido poche righe. Poi tornò a sollevare gli occhi sul cliente. «Non temete, pratica delle tariffe molto ragionevoli» aggiunse in fretta, dopo aver gettato un’occhiata agli abiti dell’altro, sobri e di buon gusto ma certo di modesta qualità. «Talvolta addirittura so che ritrae i suoi modelli gratuitamente, se trova in loro qualcosa che colpisce il suo genio artistico. Ah, prendete pure l’ultima lastra, ma non usatela, è un consiglio da esperto» aggiunse mentre lo congedava, mettendogli in mano il contenitore di legno sottile.

 

H.P. Lovecraft si ritrovò in strada. La luce esterna e il rumore confuso del traffico per un attimo lo stordirono. Stringeva in mano il foglietto: cercò di mettere a fuoco lo scritto, e rabbrividì. Non tanto per il nome del pittore: leggere Richard Upton Pickman lo tranquillizzò, con quel sonoro richiamo ad almeno un paio delle famiglie più antiche e illustri della città. Ma la strada del suo studio era proprio nel fondo più scuro del NorthEnd, il quartiere malfamato. La zona della città verso i vecchi docks che nessun bostoniano degno di questo nome si sarebbe mai sognato di frequentare. Un ammasso maleodorante di edifici cadenti e di case di malaffare, dove un’accozzaglia di immigrati e di avventurieri aveva scavato le sue tane da quando gli abitanti l’avevano abbandonata in cerca di quartieri più sani e sicuri.

Prese per Battery Street, e poi costeggiò la vecchia darsena sulla Constitution Wharf, fino a raggiungere Greenough Lane. Tutto il quartiere sembrava circondato da una barriera invisibile: le strade alberate, gli ordinati viali della città borghese erano spariti, per sciogliersi in un ammasso informe di costruzioni, che sembravano debordare dall’originaria pianta squadrata dell’antica città. Ondate di irlandesi, polacchi, ebrei e italiani, ciascuna con le sue forme, le sue parlate, i suoi odori avevano impresso allo spazio la loro violenza, curvandolo e dilatandolo fino all’inverosimile per accogliere sempre più numerose masse di disperati.

Lovecraft continuava a procedere, sempre più infastidito, cercando di non sfiorare le muraglie sporche che a tratti spuntavano fuori con spigoli imprevisti, come se nella notte gli edifici stessi cercassero di farsi spazio gli uni contro gli altri. Dopo aver seguito un tratto di Hull Street, la via mediana del quartiere in fondo alla quale svettava il campanile neogotico della chiesa di Old North, aveva svoltato in una piccola traversa. La viuzza sprofondava verso la zona del vecchio porto: controllò ancora una volta l’indirizzo e gli parve di essere giunto. Una porta stretta su quello che una volta doveva essere stato un magazzino, aveva appesa una targhetta di legno scrostato con sopra scritto Peters – pittore. 

Bussò, senza troppa decisione. Attese inutilmente alcuni interminabili secondi, e già stava per affrettarsi a tornare indietro, lieto che non vi fosse nessuno. Dentro di sé era pentito di aver accolto l’invito. Ma con uno stridio la porta girò sui cardini, aprendo una fessura da cui si sporse qualcuno. Un uomo alto, dalla faccia esangue come cera.

«Cosa volete?» chiese l’uomo, che continuava a restare seminascosto nel vano della porta, ostruendo il passaggio come se non desiderasse affatto incoraggiarlo a entrare.

«Mi chiamo Lovecraft. Cercavo il signor Pickman, ho avuto questo indirizzo. Vorrei… vorrei un ritratto. È possibile? Di piccole dimensioni» si affrettò ad aggiungere. L’altro lo squadrò da capo a piedi perplesso.

«Come avete saputo di me?» chiese sospettoso, invece di rispondere alla domanda.

«Il fotografo di Newbury Street, è lui che mi ha indirizzato…» balbettò Lovecraft, schiarendosi la gola. «Sareste voi il signor Pickman?»

«Volete un ritratto?» l’interruppe brusco l’altro, di nuovo senza rispondere.

«Sì… un’immagine per una rivista…»

«Una rivista?» replicò l’uomo con aria schifata. «Mi avete preso per un pittore di cartelloni?»

«No, per carità… volevo dire un mio ritratto… per una pubblicazione d’arte. Una rivista letteraria…» esitò ancora Lovecraft, sempre più a disagio.

«E perché non una fotografia?» insistette il pittore, sempre con il suo tono diffidente. Gli teneva gli occhi addosso, mordicchiandosi le labbra. Sembrava studiare il suo aspetto con curiosità. Senza dargli tempo di rispondere si spostò di lato, come per osservare meglio il suo profilo. Poi allungò di scatto una mano verso il suo volto, afferrandogli la mascella ed esponendola alla luce. «Pare che l’obiettivo non riesca a cogliere la mia reale espressione…» bofonchiò Lovecraft, impedito dalla stretta ferrea dell’altro. Avvertiva un senso di freddo inumano, come se fosse la mano di un cadavere a stringergli le guance.

«Sì… capisco» mormorò l’altro dopo un istante interminabile, lasciandolo finalmente andare. «Ma dovrete posare a lungo. Io non dipingo ciò che appare per un attimo. Io ritraggo la verità.»

«La verità? Certo, anche io scrivo la verità…» replicò Lovecraft, cercando di riprendersi.

Il pittore gli lanciò uno sguardo di sufficienza, alzando le spalle. «La verità! E cosa sarebbe la verità, per voi?»

«Be’, io scrivo racconti del terrore. Cerco… cerco di dare ai lettori un’immagine veritiera dell’orrore che striscia sotto la superficie delle cose…» rispose Lovecraft. Si sentiva le guance in fiamme, sempre più imbarazzato. Aveva scritto un intero saggio sull’orrore nella letteratura. Ma adesso non riusciva a trovare nemmeno una frase sensata per rendere le sue idee. Era come se lo sguardo acceso dell’altro lo paralizzasse.

«Voi non sapete quello che dite. L’orrore non si nasconde dietro le cose. È qui, davanti a noi. Invade ogni più piccolo spazio vuoto dell’esistenza, saltella tra le nostre gambe come una miriade di topi che leccano e avvelenano le nostre case. Se la mente degli uomini fosse in grado di correlare tutti i piccoli frammenti di verità che pure la vita ci pone sotto gli occhi ogni giorno, la nostra vita sprofonderebbe nella follia. Basta osservare con attenzione, signor… Lovecraft, avete detto?»

«Sì, Howard Phillips Lovecraft.»

«Lovecraft…opera d’amore» osservò il pittore, scuotendo la testa. «Ve ne servirebbe un altro, di nome. Ma venite, credo che potremo intenderci.»

Si fece da parte, lasciandolo entrare. Oltre la porta si apriva un grande spazio vuoto, annerito dal fumo delle lampade che per oltre duecento anni avevano illuminato i carichi dei vascelli diretti oltreoceano, ammassati in attesa dell’imbarco. Ma lungo le pareti di assi fradice giacevano ora allineati alla rinfusa oggetti che mai gli antichi marinai avrebbero accettato sui loro legni. Da cui sarebbero anzi fuggiti con terrore, invocando la protezione di Dio. Enormi quadri, coperti sommariamente da vecchie tele che qua e là lasciavano trasparire squarci delle immagini dipinte. E in quelle immagini Pickman aveva evocato l’inferno.

Il ricordo di altri pittori dell’incubo gli attraversò la mente: ma nemmeno Fuseli, o Doré, o Sime, o Angarola avevano mai raggiunto nelle loro opere quel vertice di profondo e assoluto orrore che adesso gli feriva gli occhi, trasudando dalle tele come una bava maligna.

Si arrestò barcollando. Ma subito la mano gelida del pittore gli strinse il polso, costringendolo a proseguire verso la testa di una scala, che sprofondava ripida nel pavimento. «Seguitemi, è là sotto che dipingo le mie opere. Lì» aggiunse con un ghigno «nessuno ci disturberà. Che avete con voi?»

«Cosa? Questa? È la lastra del fotografo, quello di cui vi ho parlato…» ripose Lovecraft, affrontando titubante i gradini sconnessi.

 

Non pensare che sia impazzito, Eliot. Ma credi, ti prego, a ogni parola che ti ho detto! Esiste davvero un orrore insondabile che si cela nelle profondità del NorthEnd, e Pickman prima di sparire deve essere entrato in contatto con quell’abominio. Ho qui tra le mani lo schizzo che era incollato a quello che forse è il suo ultimo quadro, “Ghoul che scarnifica un cadavere nel cimitero di Mount Auburn”. E Dio mio, Eliot! Non è uno schizzo, come pensavo! È una lastra fotografica, presa dal vero! Nel quadro che Pickman ne ha ricavato i tratti del ghoul sono stravolti dal movimento rabbioso delle fauci, ma è quello stesso ritratto nella lastra, te lo giuro, anche se nella negativa appare compassato, quasi inoffensivo! Sembra un normale essere umano, solo nello sguardo attonito si intuisce il demone che lo agita… Pickman deve averlo incontrato in una delle sue scorribande notturne tra le tombe, e lo ha fotografato per servirsene poi nel suo studio. Mio Dio, Eliot, la febbre mi scuote ogni muscolo, non riesco più a scrivere…

 

 

 

giovedì 3 giugno 2021

CENA ELETTRICA E DINAMISMO DI SENSAZIONI, CON FUGA.

   
L’architetto Marni respinse per l’ennesima volta il venditore cinese che insisteva a spingergli sotto il naso il suo vassoio colmo di cravatte. Mosse un passo indietro, in cerca di salvezza verso il caffè della stazione. -Una lila, signole. Una lila
Era sempre stato convinto che l’incapacità dei cinesi di pronunciare la r fosse solo una leggenda. Adesso questa insistenza gli pareva sospetta: anche i tratti somatici dell’uomo erano ambigui, la carnagione tutt’altro che gialla, gli occhi leggermente allungati ma non più di tanto, nessuna traccia del codino. Avrebbe potuto essere di Bergamo, a parte quella r ridicola. 
    -Una lila, signole. Pula seta. Avvertì dietro la schiena la maniglia della porta. chiusa. Si arrese e allungò la mano smuovendo appena con la punta delle dita la massa di strisce di tessuto multicolore, in cerca di qualcosa di decente. Il tatto gli rinviò una sensazione di morbidezza elastica: forse era davvero seta, dopo tutto. E una lira non era poco, ma forse quella blu… 

    -Che fate tenente? Ancora con quegli stracci al collo?- disse una voce ironica alle sue spalle. Si voltò verso un giovanotto che lo fissava, puntandogli contro l’indice. -L’abito italiano deve essere: 1- aggressivo, tale da moltiplicare il coraggio dei forti e da sconvolgere la sensibilità dei vili. 2- agilizzante, cioè tali da aumentare la flessuosità del corpo e da favorirne lo slancio nella lotta, nel passo di corsa o di carica. 3- dinamico, igienico, gioioso… Aveva sparato quel discorsetto come se recitasse una litania mandata a memoria. –E tu sparisci con le tue carabattole!- gridò poi al cinese, allontanandolo in malo modo con una spinta. 
    Marni era rimasto con la cravatta in mano, la sua attenzione totalmente assorbita dalla donna in compagnia del giovane, che se ne stava leggermente discosta squadrandolo in silenzio con aria ironica, la testa inclinata da un lato. 
    -Così voi siete il famoso tenente Marni. L’eroe di Fiume - disse finalmente, stringendo le labbra in una smorfietta. Poi di colpo si abbandonò a un sorriso, come se l’esame l’avesse soddisfatta. Era alta, avvolta in un incredibile mantello rosso e sospesa su degli stivaletti dai tacchi altissimi che la facevano sembrare ancora più snella. I lunghi capelli neri, gettati all’indietro e fermati da una fascia dorata, erano attraversati da una serie di strisce completamente bianche, talmente simmetriche da poter essere frutto soltanto di un accurato uso della tintura. Come se una luna scintillante si fosse nascosta dietro di lei, e le irraggiasse la testa con i suoi raggi argentei. 
    Marni cercò soprappensiero una moneta nel taschino, lanciandola al venditore che si era fermato a qualche passo di distanza, intimidito. Poi tornò a volgersi verso la donna, cercando qualcosa da dire, per nascondere l’evidente sorpresa –Sì, sono Cesare Marni. L’architetto… 
    Lei continuava a fissarlo. Poi con un guizzo gli strappò la cravatta di mano, appallottolandola e gettandola via. –Basta con il passatismo e le cravatte! Viva i disegni e i colori dinamici delle stoffe, muscolari, violettissimi, rossissimi, turchinissimi, verdissimi, gialloni, arancioooni, vermiglioni (triangoli, coni, spirali, ellissi, circoli) che ispirino l'amore del pericolo, della velocità e dell'assalto, l'odio della pace e dell'immobilità! 
    Seguì con la coda dell’occhio la sua lira che finiva in terra. Anche la donna aveva sputato le parole come una mitragliatrice. Alzò la mano in segno di resa, tornando a rivolgersi al giovanotto. Anche lui legionario a Fiume, il più scervellato dei suoi sottoposti. Futurista appassionato, per di più. -Va bene, Vivafilippo, ho capito. Il Futurismo, certo. Ma adesso sarebbe il caso che mi presentassi la… signora o signorina? 
    La donna si avvicinò, entrando netta nel fascio di luce del lampione. Giovanissima, al massimo venti, venticinque anni. Senza aspettare gli tesa decisa la mano. –Sono Marvinia d’Ebro. È un onore incontrarvi. Pippo mi ha parlato molto di voi. Ho accettato di partecipare soltanto per il piacere di fare la vostra conoscenza. 
    Marni si schernì, con un colpetto di tosse. Temeva di essere arrossito. –Beh, io…- cominciò a dire. Ma lei aveva ripreso a raffica: -Quanto alla moda, ricordate anche il punto sette: Illuminanti. Stoffe fosforescenti, che possono accendere la temerità in un'assemblea di paurosi, spandere luce intorno quando piove, e correggere il grigiore del crepuscolo nelle vie e nei nervi. 8. - Volitivi. Disegni e colori violenti, imperiosi e impetuosi come comandi sul campo di battaglia. 9. - Asimmetrici. Per esempio, l'estremità delle maniche e il davanti della giacca saranno a destra rotondi, a sinistra quadrati. Geniali controattacchi di linee...  
    Marni ascoltò pazientemente tutto l’elenco. Per fortuna il giovanotto, dopo aver lanciato uno sguardo all’orologio, intervenne. –Muoviamoci, corriamo il rischio di fare tardi! Afferrò per un braccio la ragazza e prese a guidarli con virile baldanza giù per una strada laterale, al capolinea della ferrovie laziali. Marni li seguì fino alla banchina male illuminata, dove un piccolo convoglio di tre vetture era in attesa, semivuoto. 
    Si arrampicò con un sospiro sui tre scalini della vettura, sottilmente umiliato dallo slancio con cui l’altro era salito a bordo con un sol balzo, imitato con uguale energia dalla ragazza. Il trenino si mise in moto sferragliando, muovendo verso porta Maggiore e poi oltre, lungo la via Prenestina, dove la città spariva per far posto ad una periferia disabitata, punteggiata qua e là da radi fanali. 
    Si erano seduti vicini, su una delle panche di legno. –Avete fatto bene ad accettare, tenente. Stasera vi godrete il più bel banchetto che possiate immaginare! Marni annuì, poco convinto. –Al telefono non sei stato troppo chiaro. Dov’è che stiamo andando, esattamente? Il giovanotto scoppiò a ridere, subito imitato dalla ragazza. –Ma ve l’ho detto, ad Ardita! Storica cittadina dell’alto Lazio. Il comune ha bandito un concorso per l’erigenda Casa del Fascio, e stasera verrà assegnato il premio. E chi meglio di un’autorità come voi per consegnarlo al vincitore? Un eroe e un famoso architetto! 
    -Eroe! Piantala con questa storia, Vivafilippo. E famoso architetto non direi proprio. Devo ancora… 
    -Su, su, sappiamo bene che avete anche partecipato al concorso per la nuova stazione Termini. Voi, l’allievo del grande Sant’Elia! 
    -Veramente ho solo presentato un progetto per le ali laterali, che è finito subito in qualche cassetto. Del resto era abbastanza difficile competere con Mazzoni- si schernì lui. –E quanto a Sant’Elia…- 
    La frase gli morì in gola, distratto da un movimento inatteso della ragazza. Aveva abbassato il cristallo del finestrino e allungava fuori la testa a occhi chiusi, abbandonata al flusso del vento che le agitava i capelli. Si aggrappava al bordo come una diva del cinema avrebbe fatto a un tendaggio, inebriata. -Questa è l’estasi dei nostri tempi, tenente, l’estasi della velocità!- gridò nella notte protendendosi ancor più verso l’esterno. –Noi siamo gli esseri liberati dal giogo della terra, e voleremo nel cosmo sulle ali dei nostri aneliti! Sentite l’estasi, Marni? 
    Sempre inneggiando all’estasi aveva preso a battere le braccia come delle ali, innalzandosi sulla punta dei piedi. Invece di rispondere Marni gettò uno sguardo ansioso verso la testa della vettura. Gli era parso di vedere qualcosa, un’ombra… e un rumore lontano, come di cristalli tintinnanti. Si gettò sulla donna afferrandola per le spalle e trascinandola dentro, appena in tempo per evitare che la sua testa bicolore si schiantasse contro la motrice del trenino che procedeva in senso inverso. L’urlo metallico e il tintinnio di cristalli invase la vettura per alcuni secondi, violento. Poi i due treni si allontanarono, con il rombo che cessava di colpo. -Non fate mai questo gioco- disse Marni, severo. –Non è prudente. Ne va della vita. 
    -La vita… cos’è mai la vita?- rispose la ragazza ancora ad occhi chiusi, con un sorriso che a Marni parve ebete stampato sulla faccia. -È l’ombra di un sogno fuggente… la favola breve… 
    Marni si rivolse verso il giovanotto. La tensione per l’incidente sfiorato si stava trasformando decisamente in rabbia. Con se stesso, soprattutto per essersi lasciato trascinare ancora una volta in qualche altra impresa senza senso. Se non fosse stato per il lavoro così scarso, in quel momento… Fu interrotto nelle sue considerazioni da uno scoppio di ilarità. 
    La ragazza era in preda a una raffica di risatine convulse. Doveva essere la reazione a quanto era accaduto, adesso che forse realizzava il pericolo corso. Vivafilippo la scrollava per un braccio, cercando di calmarla. Stava pensando a cos’altro si potesse fare, quando la vettura cominciò a rallentare con uno stridio di freni. Una targa di lamiera verniciata appesa alla pensilina recitava “Ponte Tre Vacche”. Vivafilippo si sporse dal finestrino, poi corse rapido lungo il corridoio, facendo segno di seguirlo. -Ci siamo! 
    A quelle parole la ragazza sembrò improvvisamente riacquistare una perfetta padronanza di sé. Si ravviò rapidamente la chioma e tese il braccio a Marni. Sfilarono tra le panche di legno, mentre lei si abbandonava a puntuali considerazioni sull’arretratezza estetica del trasporto pubblico, e finalmente scesero. Marni appena a terra si guardò rapidamente intorno. Non erano in una stazione vera e propria: solo una stretta banchina di cemento in mezzo alla campagna, a malapena illuminata da un fanale all’estremità. A qualche centinaio di metri, oltre la via consolare, si scorgeva un raggruppamento di costruzioni, che nel crepuscolo già cominciavano a confondersi in una massa scura. –Ma non dovevamo scendere a Ardita? 
    -E’ questa Ardita- rispose pronto Vivafilippo. -O meglio, lo sarà non appena il Ministero degli Interni avrà autorizzato il cambio del nome. La qualcosa avverrà presto e ineluttabilmente, visto che ha dato i natali a ben tre arditi della Guerra- specificò, avviandosi con passo deciso verso il paese. 
    Percorsero rapidi quello che doveva essere il corso, una strada stretta e curva, su cui si aprivano le finestre di qualche bottega, quasi tutte già serrate da pesanti sportelli di legno, e pochi portoni, incorniciati da archi della pietra grezza della zona. Quindi sbucarono su una piazza irregolare, dominata da un lato da una chiesa e dall’altra da un palazzotto a tre piani. Dalla porta e dalle finestre usciva luce e brusio di voci. Qualcuno in attesa doveva averli scorti, perché Marni sentì ripetere distintamente un Eccoli, eccoli! mentre delle ombre si avvicinavano alle finestre. -Venite tenente, ci siamo. 
    Sulla porta c’era un piccolo comitato di ricevimento. Marni passò attraverso il gruppo di uomini in camicia nera con il braccio teso. Qualcuno affacciato ad una delle finestre gridò un eja eja, cui il gruppetto rispose con un fragoroso alalà. Marni non sapeva come reagire a tanto entusiasmo e d’istinto sollevò leggermente il cappello. Se lo sentì portare via dallo strappo deciso da Marvinia, che lo gettò senza riguardi sopra un divanetto nell’atrio, alla base di una scala che saliva verso l’alto. –Via questo arcaico coperchio, tenente- gli sussurrò all’orecchio. –Qui voi siete in rappresentanza dei nuovi tempi! 
    Un uomo si fece incontro a Marni. Salutò romanamente, poi gli tese la destra. –Sono Amintore Perfetti, podestà della futura Ardita. Benvenuto!- esclamò, scrollandogli calorosamente la mano. –Ma seguitemi, prego. Tutto è pronto. Di sopra, nella sala consiliare- esclamò giulivo, avviandosi su per la stretta scala che iniziava appena oltre il portone. Marni lo seguì, gettando un ultimo sguardo al suo cappello abbandonato, con il timore che facesse la stessa fine della cravatta. 
    Al primo piano, in quella che doveva essere la sala consigliare, era stata allestita una lunga tavola, coperta da una tovaglia a figure geometriche multicolori. Intorno si assiepavano un gruppo di persone, donne e uomini di varia età, alcuni in divisa. Il podestà li presentò rapidamente, accompagnando ogni nome da un puntiglioso elenco di titoli e di professioni, che culminò in quello di geometra affibbiato a un uomo tarchiato, già quasi calvo. 
    Questi se ne stava leggermente isolato dagli altri, accanto a un tavolino su cui giaceva qualcosa di voluminoso, nascosto alla vista da un panno bianco. Qualunque cosa fosse, l’uomo sembrava covarla con gli occhi, un’espressione di stolida soddisfazione stampata sul viso. –Il tecnico capo comunale, Ermete geometra Proietti, autore dell’opera che andremo stasera a premiare!- Marni rispondeva cortese a tutti, cercando affannosamente di memorizzare almeno qualche nome, che secondo il suo costume sparivano dalla memoria appena pronunciati. -Venite! Prendiamo posto per il banchetto!- disse al termine del giro il podestà. 
    Marni si mosse per raggiungere un posto d’angolo. Ma fu fermato dal  podestà. -Che fate architetto? A voi il posto d’onore!- esclamò con voce stentorea, sostenuto all’unisono dalla piccola folla. –E a noi- riprese ammiccando in giro –a noi tutto il resto! 
    Una fragorosa risata accompagnò la battuta, mentre tutti gli altri prendevano posto giulivi, scambiandosi spinte e manate. Marvinia fu fatta accomodare alla sua destra, seguita dal geometra Proietti che non le staccava gli occhi di dosso, tra lo sbigottito e l’estasiato. -Il tenente Marni, già eroe fiumano, grande e famoso architetto in Roma, ha accettato di premiare il nostro vincitore! Siamo onorati che quello che ci accingiamo a costruire abbia il sigillo dell’allievo del grande Sant’Elia! 
    Marni lanciò un’occhiataccia a Vivafilippo. Chissà cosa aveva raccontato quello sciagurato. Si sentiva in dovere di spiegare che le cose erano leggermente diverse, ma prima di poter aprire bocca -Abbiamo preparato una sorpresa per voi- disse ancora il Podestà, dopo aver imposto il silenzio battendo vigorosamente con il coltello contro un bicchiere. –E questo grazie all’aiuto del nostro giovane amico! Giovane ma che ha già ben meritato dalla Patria! Anche lui volontario fiumano (a questo punto qualcuno gridò: per il Comandante! Eja eja, alalà), e soprattutto ardente rappresentante dell’arte novissima! È stata sua l’idea di infuturare l’opera che andremo a erigere, coniugandola piacevolmente con una prelibata cena fedele ai dettami di S.E. Tommaso Filippo Marinetti! 
    Marni rivolse un altro sguardo inquieto verso il giovanotto, ma quello sembrava godersi tranquillissimo la scena, immerso in una sorta di beata indifferenza. –Sono cittadino onorario di Ardita- si limitò a sussurrare. -Una sorpresa che il governo della città vuole offrire ai suoi cittadini benemeriti!- gorgheggiò ancora il podestà, soffocato da una nuova salva di alalà. 
    Sul fondo della sala si apriva un arco, chiuso da un pesante tendaggio. I lembi furono scostati da una mano nascosta, e apparve un cameriere con una cesta piena di fiaschi. L’uomo si avvicinò e cominciò a distribuirli lungo la tavola. -E’ vino delle nostre parti- disse il podestà, stappandone con abilità uno e riempiendo i bicchieri intorno a lui. –Salute. Al Re, al Duce, all’Italia e a tutti i presenti! I presenti si erano affrettati a imitarlo, facendo seguire i primi sorsi da una nutrita serie di apprezzamenti. La prova non doveva però esser stata sufficiente, perché immediatamente il brindisi fu ripetuto, stavolta a partire dall’altro lato del tavolo. Marni avvicinò alle labbra il liquido asprigno, e ne inghiottì a sua volta. Davvero piacevole, forse non raffreddato quanto si sarebbe dovuto, ma più che discreto. Anche gli altri dovevano pensarla così, perché partì l’invito a una terza levata di bicchieri, questa volta alla salute di Roma, del principe Umberto e dell’erigenda Casa del fascio. -E adesso si dia inizio al banchetto!- gridò il podestà, battendo con energia le mani.
    L’annuncio fu accolto da un coro di esclamazioni favorevoli. Il clima si era riscaldato, scoppi di risa animavano qua e là il tavolo. Qualcuno chiese che cosa sarebbe stato servito. -E’ una sorpresa, vi ho detto! Nemmeno io lo so ancora!- assicurò il podestà. La tenda si scostò di nuovo e stavolta entrarono in due, il cameriere del vino accompagnato da un altro più piccolo e più anziano. Spingevano un carrello con sopra un grosso scaldavivande cromato, con una vistosa ammaccatura da un lato. Il coperchio fu rimosso e apparve una zuppiera, da cui i camerieri presero ad attingere servendo nei piatti grosse cucchiaiate di un composto grigiastro. Marni si protese dubbioso, cercando di aspirare senza parere l’odore dell’intingolo. Non ne ricavò nulla. Pareva una purée di qualche cosa, con dentro affogati dei piccoli pezzi di qualcos’altro. 
    -Lumache in Trincea!- enunciò Vivafilippo con enfasi. –L’idea estetica del banchetto è legata all’eroismo dei nostri soldati, ed è ardita parafrasi culinaria dei cibi semplici e schietti che tanti eroi hanno divorato nel tempo di guerra! Marni in guerra aveva davvero mangiato di tutto. Non era arrivato a far bollire i lacci degli scarponi, come diceva una delle tante leggende, ma qualche arrosto di equivoci roditori, spacciati per castori, l’aveva assaggiato. Queste lumache non sarebbero state peggio, pensò mentre portava alla bocca la forchetta. 
    Un disgustoso sapore putrido gli esplose in bocca. Inghiottì a forza, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. Anche gli altri non sembravano troppo convinti. Il podestà aveva esitato un attimo sul piatto, prima di immergervi romanamente il cucchiaio. Poi aveva portato alla bocca rapido la posata, inghiottendo con un singulto. Marni girava senza parere con il cucchiaio nel piatto, fingendo di esplorare le parti migliori, mentre cercava in realtà di sparpagliare la massa gelatinosa per far credere che diminuisse ad ogni passaggio. In bocca gli era rimasto qualcosa di resistente alla masticazione, simile a un pezzetto di camera d’aria di bicicletta. Senza parere lo sputò nel cavo della mano, lasciandolo poi cadere a terra con la speranza che nessuno lo notasse. Di tanto in tanto portava la posata alla bocca, simulando un boccone, ma limitandosi in realtà a sfiorare appena la parte metallica. Ma anche così il retrogusto di muffa restava nauseante. 
    Cercando di non dare nell’occhio osservava gli altri convitati. Un silenzio pesante era sceso sulla sala, attraversato dagli sguardi perplessi di tutti. Solo qualche avventuroso aveva osato oltre il primo boccone, mentre tutti gli altri, con diversi gradi di disinvoltura, aspettavano che la pietanza venisse ritirata. L’arrivo dei camerieri fu accolto con grande soddisfazione, appena mitigata dall’annuncio, da parte di Vivafilippo, che sarebbe seguito un piatto di Bucatini Chiodati, ancora in omaggio al valoroso fante italiano. I Bucatini si rivelarono per essere sostanzialmente un piatto di pasta abbastanza scotta, conditi con chiodi di garofano e marmellata. Poiché tutti gli sguardi stavolta erano fissi sul podestà, questi si sentì chiamato a dare l’esempio, ingurgitandone almeno una parte con l’aiuto di ripetute sorsate di vino. Ad ogni boccone strizzava gli occhi, come se stesse buttando giù una scatola intera di Chinino dell’Istituto Farmaceutico Militare. 
    Quindi fu la volta del pezzo forte, l’UomoDonnaMezzanotte, un laghetto di zabaione su cui nuotavano fette di cipolla e castagne. Lo zabaione non era male, decise Marni, a patto di raccoglierne solo qualche punta di cucchiaio sul bordo della composizione, evitando accuratamente l’area aromatizzata dalla cipolla. E forse anche le castagne sarebbero state mangiabili, se qualcuno in cucina si fosse ricordato di eliminare la buccia. Il dubbio doveva essere anche di altri. Fu risolto da Vivafilippo: -Le castagne vanno mangiate con la buccia, perché i denti si esercitino a strappare la linguetta delle bombe a mano! Marvinia si abbandonò a un vigoroso battimano. –E le donne non saranno da meno!- gridò, afferrando una castagna e strappandone una metà con un morso selvaggio. 
    Il podestà era scuro in volto. Tornava continuamente sulla faccia beata di Vivafiippo, che dall’altra parte del tavolo ammiccava con fare rassicurante, come a dire non avete ancora visto niente! L’uomo sembrava preoccupato. Estrasse dalla tasca della sahariana un foglietto di carta, e inforcò gli occhiali. –Bene, il programma adesso prevede…- lesse, schiarendosi la voce più volte. -Adesso viene l’intrattenimento musicale!- gridò con un sospiro liberatorio, aggrappandosi a quello che leggeva come a un’ancora di salvezza. –Invitiamo la signorina… 
    -Aspettate, eccellenza! C’è ancora il dolce!- lo raggelò Vivafilippo. Il giovane batté le mani, questa volta secondo un ritmo preciso, tre colpi seguiti da altri tre. Le luci in sala si attenuarono, come se un’intera fila di lampadine avesse ceduto di colpo, precipitando tutti in una specie di crepuscolo incerto. Con un gridolino di finta paura Marvinia sobbalzò, gettandosi a stringere la mano di Marni non occupata dal cucchiaio. Percepiva intorno a sé il moto confuso di ombre, come se per l’eccitazione tutti si fossero alzati in piedi e si spostassero su posizioni ritenute chissà perché maggiormente strategiche per quello che doveva succedere. La tenda sul fondo si aprì di nuovo, e un fiotto di luci multicolori irruppe nella sala, mentre un carrello faceva il suo ingresso spinto dal cameriere più anziano, tra acclamazioni di giubilo. Sopra risplendeva un oggetto dall’aspetto metallico, dalla forma e dalle dimensioni che ricordavano quella di un proiettile di mortaio. Sulla sua superficie era tutto un tripudio di punti luminosi, accesi di tutti quei colori che avevano dato l’illusione dell’arcobaleno. -Attenti al filo!- gridò qualcuno, dopo che il carrello aveva avuto un sobbalzo, spegnendosi per una frazione di secondo. La cosa tornò subito a risplendere. -Il Panettone Elettrico!- gridò Vivafilippo, mentre Marvinia sempre più emozionata tornava ad afferrare la mano di Marni. –Il nuovissimo piatto della Volt-cucina! Marni alzò gli occhi al cielo, in un gesto del tutto inutile visto che la volta della sala era totalmente invisibile. Poi abbassò lo sguardo sul panettone che adesso sfilava proprio davanti a lui. Vista da vicino la cosa si rivelava essere proprio un panettone, dalla cui superficie leggermente abbrustolita spuntavano i bulbi di decine di piccole lampadine colorate da albero di Natale, mentre un lungo cordone intrecciato scendeva dal carrello per perdersi oltre la tenda. Come se un insolito animale dalla coda lunghissima fosse venuto fuori approfittando del buio, per partecipare alla festa. Almeno questo, a parte la decorazione, aveva un aspetto commestibile. Lesse la stessa aria rinfrancata sui volti degli altri. 
    Il podestà aveva impugnato un grosso coltello, con l’aria di voler tagliare qualche fetta, ma la luminosità vibrante sembrò trattenerlo. –Bene… forse… possiamo riservarlo per dopo la premiazione… come dessert… -Come Peralzarsi- lo corresse Vivafilippo. -Pera… cosa?- balbettò il podestà. -Peralzarsi. È questo il nome italianissimo da darsi al dessert- replicò implacabile il giovane. -Ah, bene…bene. Comunque lo assaggeremo dopo. Adesso la magnifica voce della signorina, e poi il premio! 
    Il podestà lanciò un invito cavalleresco a Marvinia perché raggiungesse il centro della sala. La ragazza saltellò fino al punto indicato, poi si abbandonò a un inchino vertiginoso, che le permise di offrire alla vista di tutti un ampio settore del decoltè. –Eseguirò, per voce sola, “Serenata dell’ardito” di Carmine Miglieruolo, in omaggio alla città che ci ospita. Romanza passionante e dialettica. - Esplose un timido battimani, mentre Marni tratteneva a forza uno sbuffo d’aria che gli era salito alla bocca. Cominciava a non poterne più di arditi e arditismo. Ma forse sarebbe durato poco. Vivafilippo si era avvicinato. Sentì che di nascosto gli dava di gomito. -Ascoltate che voce, tenente! 
    La ragazza cominciò senza preavviso a gorgheggiare. O meglio, probabilmente quella era l’intenzione, sua e del compositore. Aveva una voce potente indubbiamente, che esplodeva a strappi in continui crescendo per poi riprecipitare verso il fondo delle sette note della scala diatonica, più altre di sua invenzione. La passione c’era senz’altro, e forse ci sarebbe stata anche la dialettica, pensò Marni. -Miglieruolo appartiene alla scuola di Russolo. L'Intonarumori- gli soffiò nell’orecchio Vivafilippo, a titolo di commento. Mavinia continuava nelle sue escursioni melodiche senza pietà, affondando nella Serenata e nei timpani degli ascoltatori come un coltello nel burro. Con quei suoni sarebbe stato davvero difficile indurre il sonno in chiunque, ancorché ardito, pensò Marni, che spiava di sottecchi le reazioni degli altri, divise tra lo stupefatto e il mortificato. -Splendida, no?- esclamò Vivafilippo. –Martina ha una voce davvero incredibile! 
   -Incredibile, davvero. Ma non si chiama Marvinia?- Il giovanotto gli lanciò un’occhiata benevola, come se volesse rimarcare la sua inguaribile ingenuità. –Marvinia d’Ebro? Ma vi pare possibile? Quello è il suo nome in arte. Arte Futura, naturalmente! 
     Di botto la ragazza spense l’ultima nota, inchinandosi con la solita vertiginosità dopo una breve pausa di silenzio. Raccolse un applauso generoso, che Marni attribuì più a un senso di liberazione degli astanti che ad apprezzamento, e tornò a sedere al suo posto, accogliendo con grazia l’entusiasmo del geometra che si sperticava in elogi confusi. Il podestà realizzò con un attimo di ritardo che l’esibizione era conclusa. Si versò un bicchiere di vino e l’ingurgitò rapido, poi si passò il fazzoletto sulla fronte sudata. -Bene. Bene- ripeté. –Adesso dobbiamo passare alla premiazione- aggiunse dopo un attimo, cercando con gli occhi Marni. 
    Con un passo non troppo sicuro si avvicinò al tavolino dove giaceva il misterioso oggetto velato, facendo cenno anche al geometra di avvicinarsi. -Architetto, esprimete il vostro giudizio sul nostro progetto!- esclamò, afferrando un lembo della tela e tirandola via con un gesto preciso. Sotto c’era il plastico di legno e cartone di un edificio, una specie di tozzo cilindro con un’appendice frontale, che ricordava nelle sue linee generali quelle di un fascio littorio. Accanto una coppa dorata, grande quasi quanto il plastico, con sopra inciso Al vincitore del concorso edilizio Ardita dona grata
    -La Nuova casa del Fascio di Ardita!- esclamò con orgoglio il podestà, tendendo generoso il braccio sulla spalla del geometra Proietti. Infatti sul plastico, appena sotto la lama dell’ascia, c’era scritto proprio così, Ardita. Marni guardò con attenzione il portale segnato da colonnine ricavate da quelli che sembravano gessetti scolastici e le numerose finestre, tutte disegnate a matita sulla superficie di cartone del modellino. -Bene, bene. Che ne pensate? –Beh, io… -Ma non avete visto il meglio, il modello è perfetto!- incalzò il podestà, sollevando con fare cerimonioso il tetto, che fungeva da coperchio dell’oggetto, come un prete con il calice della Messa. –E’ completo anche al suo interno, guardate, guardate pure! 
    Marni si protese in avanti. Effettivamente all’interno del cilindro di cartone c’era un sacco di roba, una striscia pieghettata che riproduceva una scala, una serie di tramezzature, altri elementi che parevano dei piccoli mobili di compensato. Gli ricordò una casa di bambole, ma animata da una specie di perversione formale. Un’irragionevolezza davvero infantile, come se si fosse trattato di un gioco di costruzioni montate in un asilo. Listelli di cartoncino simulavano le pareti di stanze corridoi, ma disposti senza una logica apparente. Sale che si aprivano le une dentro le altre, corridoi che portavano al nulla, o si schiantavano contro pareti cieche. Finestre negli angoli, o distribuite asimmetricamente rispetto alle pareti. -Effettivamente… sembra interessante… ma forse se potessi vedere anche le planimetrie… Il podestà lanciò uno sguardo interrogativo al geometra, che si strinse nelle spalle. –I disegni li ho spediti a Roma, al Ministero… per il finanziamento. Per affrettare i tempi… 
    Il geometra aveva detto Roma con un tono insieme trionfale e preoccupato. Orgoglioso e insieme cauto, come se il fatto costituisse per lui un piccolo Rubicone. -Credevo che il modello fosse sufficiente… per cogliere l’idea… 
    Marni sospirò. –Questa è la sala riunioni?- chiese, indicando un punto nell’interno, un riquadro più ampio degli altro che il costruttore aveva riempito pazientemente di quelle che sembravano tante sedioline di legno. -Certo!- replicò vivacemente il geometra, lieto della rapidità con cui Marni aveva colto il centro focale della costruzione, a riprova della chiarezza della sua opera. -E vi si accede da questa scala? -Certamente! Una rampa magnifica, direi quasi impetuosa, degna dell’italica rinnovata energia di coloro che la saliranno!- si inserì il podestà. –Ho visto i disegni, architetto. Una suggestiva montagna di pietra, che parrà una salita verso il Destino! Che dico, un’Ascensione! 
    -Però, se il modello riproduce gli esatti rapporti volumetrici, la ripidezza dell’ascensione che verrà realizzata temo oltrepassi i limiti delle capacità dell’essere umano. Vedete?- disse Marni indicando la striscia di cartoncino plissettata. –Ci vorrebbe un goniometro, ma a occhio direi che l’inclinazione sia almeno di sessanta gradi. Messa così soltanto un gatto potrebbe salirla, e forse qualche guida alpina, ma con corde e piccozze. 
    -Che dite?- mormorò il podestà, protendendosi a sua volta per vedere più esattamente. –E’ così?- chiese poi sospettoso al geometra. Proietti aveva un’espressione indispettita. –Ma no, naturalmente! Forse qualche anziano… qualche piccola difficoltà… ma i vincoli della superficie concessa sono tali che non si può evitare qualche piccolo disagio…- si sentì poi spinto a concedere. 
    Marni mormorò qualcosa tra sé. –Dite, architetto? -In alternativa, immagino che abbiate previsto un ascensore. Appunto per gli anziani, e soprattutto per i mutilati e gli invalidi di guerra, che più di altri hanno diritto ad accedervi. Aveva pronunciato la frase cercando di mantenere un tono neutro, ma il geometra si era ormai arroccato sulle difensive. Si strinse ancor più nelle spalle, masticando un –Anche l’ascensore! Ma figuriamoci!- a mezza bocca.
    Ci fu un lungo attimo di silenzio, imbarazzato. Vista la piega che aveva preso l’argomento scale, Marni pensò che fosse meglio cambiare discorso. –Bene, vediamo comunque lo schema degli impianti idrici e di scarico. Proietti sembrò rasserenarsi all’improvviso. –La copertura sarà realizzata con una pendenza del tre per cento, acque in gronda e pluviali ogni cinque metri, secondo il manuale. Il Manuale tecnico, del Gasparrelli. Si arrestò, in attesa di elogio. 
    -Ah, il Gasparrelli. Certo, certo. Bene- interloquì il podestà, rassicurato. 
    -Sì, ma gli scarichi delle acque nere? 
    -Quali acque nere?- tornò a inserirsi il podestà 
    -Avete progettato un edificio per uffici, ma soprattutto per riunioni. Avrete previsto da qualche parte la collocazione dei servizi igienici per un discreto numero di persone, no?
    -Ma no, perché?- balbettò il geometra. 
    -Ma perché l’edificio sarà aperto al popolo! E bisogna pur prevedere che possano sorgere delle necessità naturali, durante la presenza dello stesso! 
    -E perché il popolo dovrebbe venire a pisciare alla Casa del fascio? Che lo faccia casa sua!- rispose quello indispettito. –Nessuno spazio ai sovversivi, che con la scusa della natura verrebbero ad irriderci nelle nostre stanze! 
    -Ma ci sono le norme urbanistiche e quelle dell’igiene, nonché quelle della decenza…- provò a replicare Marni. Il podestà sembrava riflettere, sospettoso. Poi alzò al cielo il mento. –Perché un cesso sarebbe un incitamento alla sovversione? 
    -C’è il rischio che si ripeta quello che è accaduto alla latrina dietro il mercato. 
    -Che cosa è accaduto? Perché non sono informato di quello che capita nella mia città? 
    Il geometra lanciò uno sguardo imbarazzato intorno, in cerca di sostegno. Ma nessuno sembrava disposto a dargliene. Si schiarì la voce due volte. –Una mano ignota. Ha scritto… ma ho provveduto immediatamente alla cancellazione… 
    -Che cosa ha scritto? 
    -Qui l’ho fatta e qui la lascio… ad Amintore ed al fascio… 
    Un silenzio gelido cadde nella stanza, subito spezzato da uno scoppio di risa. Marvinia si schermava la bocca con il dorso della mano, cercando inutilmente di trattenere l’ilarità. Il podestà si avvicinò in silenzio al tavolo. Scansò con un gesto nervoso il piatto dei Bucatini Chiodati per afferrare il fiasco. Riempì soprappensiero il primo bicchiere che aveva davanti, poi lo scolò in una sola lunga sorsata. Marni intanto continuava a osservare perplesso il plastico. Avrebbe voluto lasciar perdere, ma aveva la sensazione che tutti si aspettassero da lui qualche altra considerazione. -Resta solo un problema- disse a un certo punto. -Dove dovrebbe sorgere l’edificio? 
    Il podestà lanciò un’occhiata trionfante in giro sugli altri. –Ma esattamente qui, al posto della fatiscente costruzione che ci ospita. Marni guardò dalla finestra, verso la facciata della chiesa dall’altra parte della piazzetta. 
    –Qui? 
    -Certo, qui!- replicò a muso duro il podestà, facendogli sotto. 
    -Ma così piazzerete questa … cosa direttamente davanti alla chiesa. Una chiesa romanica. 
    -Romanica? E con questo? Anche il fascio è romano! Dove sarebbe il problema? 
    -Come dove sarebbe il problema?- gridò Marni esasperato, alzando le braccia al cielo. Alle sue spalle esplose di nuovo la risata incontenibile di Marvinia. Il podestà si volse inferocito verso la ragazza, poi tornò a guardare Marni, poi si mise a fissare la finestra, attraverso la quale si scorgeva vicinissima la facciata della chiesa dirimpetto. Aveva gli occhi iniettati di sangue. 
    Mosse qualche passo malfermo da quella parte. –E così il prete avrebbe da ridire, se dall’altra parte del sagrato si ergesse il simbolo della nuova Italia? Quel maledetto prete, amico dei rossi? Perché lo sapete tutti che don Perrone tiene il sacco ai sovversivi, no? Quel maledetto prete! Il podestà si appoggiò con entrambe le mani al davanzale, ondeggiando. Poi prese di colpo a trafficare rabbioso con le dita che non sembravano volergli obbedire, cercando di slacciare la fondina. Estrasse la Beretta, armandola in mezzo alle esclamazioni dei presenti. Prese tentennando la mira ed esplose due colpi contro il campanile. 
    Dall’altra parte rispose il suono sordo del bronzo colpito dai proiettili. Il podestà esplose un terzo colpo, anch’esso seguito dal tintinnio metallico. –Gliela faccio vedere io! Vadano a pisciare nella sua chiesa!- gridò, sparando di nuovo, stavolta a spese del rosone sulla facciata. 
    Marvinia era in preda ai singulti strozzati del riso. Si teneva entrambe le mani sulla bocca, cercando di trattenersi, gli occhi che sembravano lì per uscire dalle orbite. Il podestà era tornato a rivolgersi verso l’interno della sala, fuori di sé, con il braccio armato teso a minacciare l’aria. 
    Marni scivolò di lato, preparandosi a balzargli addosso per disarmarlo. Ma l’altro non sembrava badare a lui. Aveva preso di mira il geometra Proietti, e lo seguiva con la pistola mentre quello cercava inutilmente di allontanarsi, mettendosi al riparo dietro il Panettone Elettrico, muto e sfolgorante, insensibile alle umane traversie come una divinità antica. 
    -E tu, dannato testa di cazzo, nemmeno il posto per una scala! E hai mandato pure i disegni a Roma. A Roma! Ti faccio disegnare il pisciatoio del paese, altro che la Casa del Fascio!- gli sibilò contro, avvicinandosi al tavolo luminescente. 
    Lentamente ripose la pistola nella fondina. Marni aveva preso appena a rilassarsi, ma quello con una mossa inattesa afferrò con entrambe le mani il Panettone, lo sollevò al cielo come se volesse esaminarne il fondo, poi lo calò con un urlo sulla testa del geometra, che sparì gridando a sua volta nell’impasto vaporoso, impregnandosi di luce. Marvinia si era tolta le mani dal volto, e adesso rideva libera, con la sua inarrestabile risata argentina. 
    Ma l’attenzione di Marni era tutta per il geometra. Proietti aveva iniziato una specie di danza tribale: saltellava scomposto, le braccia e le gambe squassate da un tremito convulso. Il suo corpo sembrava completamente disarticolato, come quello di un fantoccio di pezza. La maschera dolce in cui era sparito aveva preso a lampeggiare e friggere, mentre una voluta di fumo si alzava verso il soffitto, trasformandolo in un grottesco bastimento in procinto di naufragare. L’uomo compì alcuni passi ancora in tondo, trascinandosi dietro il cordone elettrico che continuava a illuminare la sua tortura, poi cadde a terra con uno schianto sordo, continuando debolmente a muovere gli arti. 
    Marvinia aveva cessato di colpo di ridere. Nessuno diceva niente. Marni afferrò il cordone dando uno strappo violento: il filo si tese con un elastico, poi cedette di colpo schizzando verso il tavolo. Le luci multicolori si spensero di botto, mentre il filo di fumo continuava a salire verso l’alto, accompagnato adesso da un forte odore di bruciato. Un silenzio innaturale dominava la sala. Rotto soltanto dai singhiozzi improvvisi di qualcuno che aveva cominciato un pianto isterico. 
    –Ti faccio vedere io!- gridò ancora il podestà, prendendo a calci il geometra che si lamentava debolmente. –In Africa! A costruire un tukul per i negri ti mando! Poi afferrò per la base la coppa, continuando a minacciare il povero geometra. –Un orinale ci voleva per te, altro che una coppa! 
    -Andiamo via, tenente. È meglio- mormorò Vivafilippo. Marni, ancora con il pezzo di filo in mano, si riscosse di colpo. Strinse la mano di Marvinia che continuava a fissare inebetita il corpo sul pavimento, di nuovo in preda alla sua risata irrefrenabile, e la tirò a forza verso la porta, prendendo per le scale. 
    Correndo si allungò a recuperare il cappello, che per fortuna era ancora sul divanetto. Oltrepassarono il portone, incrociando due carabinieri che si affrettavano attraverso la piazza. Uno, un graduato, si stava ancora affibbiando la bandoliera, l’altro stringeva in mano il moschetto. -Cosa è successo, chi ha sparato?- chiese il maresciallo sbarrando loro la strada.
    -Niente, niente. È entrato un cane, nella sala. Sembrava arrabbiato. Il podestà ha esploso alcuni colpi in aria, a scopo intimidatorio- rispose serafico Vivafilippo, sfoderando la sua faccia di bronzo. –Però è bene che saliate a vedere, non si sa mai. 
    Il carabiniere li squadrò con aria poco convinta. In quella Marvinia gli scoppiò a ridere in faccia. L’uomo si fece scuro e sembrava sul punto di replicare quando dalle finestre del primo piano uscì di colpo un torrente di grida, imprecazioni e lamenti. Un vetro si infranse, e videro cadere accanto a loro il trofeo dorato, che rimbalzò lontano con un frastuono di latta. Si sentì un nuovo sparo. 
    I due militari si gettarono su per la scala, dimenticandosi di loro. -Adesso c’è davvero bisogno di velocità- disse Marni, indicando la via consolare che si stendeva in lontananza.
   
–E dai, piantala!- diceva Vivafilippo rivolto alla ragazza che continuava a esplodere in risa convulse, la chioma bianca e nera disfatta, agitata al vento come la bandiera a scacchi della Mille Miglia.

lunedì 12 ottobre 2020

La sindone del Diavolo, e come avvenne che Dante si trovò a investigare,

Qualche tempo fa mi imbattei, nel corso di un pigro vagabondare sulla rete, in un sito che registrava con certosino puntiglio tutti i lavori svolti dai detective dei romanzi gialli. Intendo naturalmente quei detective che non lo fossero per posizione istituzionale, come poliziotti, carabinieri o comunque agenti di una delle tante organizzazioni pubbliche volte alla repressione del crimine. Perché appunto, nel grande mondo della investigazione finta, non tutti i personaggi coinvolti si dedicano alla loro attività a tempo pieno. Al contrario, in realtà sono in pochi a godere della fortuna di uno Sherlock Holmes, consulting detective, o di un Poirot, entrambi in grado di assicurarsi vitto e un confortevole alloggio grazie alla sola opera di ricerca dei cattivi. E, nel caso del secondo, addirittura di poter godere per sé di un intero flat in un condominio raffinato, nemmeno da dover dividere con un coinquilino sia pure garbato come il dottor Watson. E potersi permettere addirittura un valet personale per la spazzolatura di abiti e scarpe. Normalmente a investigare e basta ci si condanna a una vita grama: e non è questione di talento, la regola vale anche per i grandi. Sam Spade opera in un ufficio allogato in un anonimo palazzone di Frisco, ma almeno può permettersi una segretaria: forse per via del suo indiscutibile fascino, ma anche perché siamo in Depressione, e si trova ancora gente disposta a lavorare for nuts. Ma già Philips Marlowe, pochi anni dopo, deve accontentarsi di una segreteria telefonica, ed entrambi devono affidare i loro pedinamenti non certo a delle Packard o a delle Cadillac, ma solo a delle molto più modeste Ford o Chevrolet. Insomma, facendo astrazione dai detective di area vittoriana, quei grandi dilettanti che potevano dedicarsi liberamente alla loro attività grazie alla posizione di rentier, in genere per possesso di titolo e relativi latifondi, o in virtù magari di qualche fortunata e opportuna eredità, si scopre ben presto come gran parte degli investigatori viva in realtà grazie ad altro lavoro, uno square job, come dicono gli amici americani. Lavori che sono i più diversi e magari intuibili, come il giornalista o l’avvocato. Ma talvolta improbabili e addirittura sconcertanti. Come il becchino, tanto per citare un caso neppure dei più strani. Così, quando mi sono trovato a dover scegliere il detective che avrebbe interpretato le storie che avevo in mente, non potendo e volendo ricorrere a un lord inglese, mi sono trovato anche io a dover immaginare una qualche attività per il mio eroe. E quel lunghissimo elenco di personaggi e di relativi mestieri mi sembrava sulle prime una preziosa fonte di ispirazione: perché tra decine di personaggi veri o immaginari pensavo che non sarebbe stato difficile trovarne almeno uno cui ispirarsi per quello che avevo in mente. Mi attirava la raffinatezza di Philo Vance, esperto d’arte ma anche l’arguzia di padre Brown, sacerdote cattolico in terre anglicane. La geometrica lucidità di Auguste Dupin gentiluomo impoverito, la sottigliezza mefistofelica di Henri Bencolin, giudice istruttore parigino, e mi affascinava non meno l’abilità fantasmagorica del Grande Merlini, l’illusionista. E avrei voluto rubare qualcosa a ognuno di loro, ma avevo bisogno di un qualcosa che fosse poi in carattere con il ruolo chiamato a ricoprire, che per la complessa natura delle vicende in cui lo avrei maliziosamente coinvolto richiedeva un di più di pensiero astratto. E trattandosi di vicende ambientate nel medio Evo, in cui avvengono crimini velati da ombre misteriose e spesso esoteriche, mi sembrò naturale che a dipanarle venisse chiamata la mente più straordinaria vissuta in quei tempi. Un uomo con una vasta esperienza del male e di tutte le sue manifestazioni, che magari fosse anche autore di un’opera che al di là del suo straordinario valore poetico fosse anche una geniale Summa Criminalis, un ordinato repertorio di tutto ciò che degrada l’uomo e lo avvia agli inferi. Ma non un magistrato, né un notaio, mestieri questi che poi avrebbero associato ineluttabilmente il mio eroe alla polvere di pandette e codicilli, mentre io lo volevo indipendente e ardito. E non potendo dargli nessuno dei moderni strumenti di anatomopatologia, mi sembrava inutile farne poi un medico, visto che il suo solo strumento d’indagine poteva essere la sua mente, ferrata secondo i dettami della stringente logica aristotelica. Un pensatore, dunque, magari un filosofo. E perché no, anche un teologo, trovandosi poi spesso di fronte a questioni che sfioreranno pericolosamente il regno dell’eresia. Però non un monaco, per carità! Il mio eroe doveva essere un uomo dai sentimenti forti, amante delle donne al punto di sentirsi addirittura perso nel peccato di lussuria, nel mezzo del cammino di sua vita. E quindi un laico, laicissimo, religioso sì ma problematico, al punto di avercela molto con la Chiesa e il suo papa, e di simpatizzare anche con personaggi come Sigieri di Brabante, averrorista ed eretico, e forse addirittura con una tale Dolcino, finito addirittura sul rogo. Semmai mi sarebbe piaciuto che il suo mestiere fosse quello dell’esorcista, ma non si può avere tutto. Avevo poi bisogno, sempre per la dinamica delle storie, di qualcuno in grado all’occorrenza di lottare e tirare di spada, non solo di riflettere e centellinare indizi. Per esempio uno che l'11 giugno 1289 si trovasse tra i Feditori fiorentini alla battaglia di Campaldino, schierato in mezzo all’avanguardia a cavallo che aveva il compito di scompaginare le linee aretine. E che quindici anni dopo, cacciato in esilio dagli ingrati concittadini, tornasse a impugnare la spada nello sfortunato tentativo dei fuoriusciti di tornare con le armi in Firenze. Insomma un uomo di carattere, ma non un ex militare, né un reduce intristito o un mercenario manesco. Perché a me servava semmai un grande politico, un oratore, un abile diplomatico, al punto da diventare amico e consigliere addirittura di un imperatore, per quello che avrebbe dovuto affrontare nella Sindone del Diavolo. Dotato di un grande rigore morale, per essere inflessibile di fronte al crimine, ma non assolutamente un moralista di professione: anzi, semmai anche un grande peccatore, per essere in grado di gestire con saggezza la terribile bilancia della giustizia. E poi soprattutto un poeta, e uno straordinario poeta d’amore, prima ancora che maestro di sapienza. E che avesse una grande conoscenza dell’animo femminile, perché nel racconto vi sarebbe stato grande spazio per i personaggi di quel sesso, come è proprio delle vicende umane. E poi ancora avevo bisogno di uno speziale, che avesse dimestichezza con pozioni e veleni, e insieme di un artista, che sapesse orientarsi tra le forme e riconoscere la singolare bellezza che può celarsi anche in una trama diabolica, oltre che in un affresco o un mosaico. Ma non un pittore, troppo esposto alla vividezza dei suoi colori a rischio di restarne prigioniero, né uno scultore, che la pesantezza della materia avrebbe potuto ancorare alla terra, mentre io volevo qualcuno in grado di spaziare leggero, forse un architetto, allora. E anche un musico, e un cantore, e un conoscitore dei moti celesti, anche, perché è nelle stelle gran parte del nostro destino. Insomma, non c’era un solo mestiere adatto per l’eroe che avevo in mente io, e nessuno tra i personaggi elencati avrebbe potuto interpretarlo. C’era fortunatamente però un essere reale ricco di tutte queste doti, qualcuno che era esistito veramente, e cui avrei potuto umilmente rendere omaggio, aggiungendo di nascosto qualcosa di inventato all’infinita corona della sua gloria. C’era Durante degli Alighieri, meglio noto come Dante, uno che aveva fatto parlare di sé per diverse altre cose, ma che forse un naturale ritrosia aveva trattenuto dal rivelare nella sua opera anche alcune vicende tenebrose in cui era rimasto coinvolto, nelle more dei suoi impegni maggiori. Forse la stessa discrezione venata di alterigia con cui Sherlock Holmes cercava di soffocare gli sforzi letterari del povero Watson, quello sprezzo verso ciò che si è fatto, quando la nostra mente è già persa nelle imprese future. Come che sia, ho pensato invece di dar voce a queste vicende. La sindone del Diavolo è una di esse. Forse la più strana e inquietante. Perché questa volta sembra che a sbarrargli il cammino non sia la perversione dell’uomo, quanto quella ben più insidiosa dei demoni.

domenica 7 luglio 2019

L'economia spiegata a Pinocchio.



Rivoltosi per avere giustizia al Giudice della città di Acchiappa-citrulli, Pinocchio riceve invece una sonora lezione di Diritto Applicato nel Belpaese: e se Collodi sia stato più antiveggente o pessimista è riflessione che lasciamo ai lettori.
A prima vista sembra che il povero burattino venga condannato per un episodio di insensatezza che è poi diventato proverbiale, tanto da essere tuttora additato ai pargoli di tutto il mondo come esempio negativo proprio di ciò che non deve essere fatto quando si dispone di un po’ di denaro, simbolo stesso della follia economica assurto nell’immaginario collettivo a paradigma di stolidità.
Ma perché tanto accanimento giudiziario contro il povero burattino? C’è un vero mistero dietro questa sentenza senza appello, degno di essere investigato. Parrebbe dunque che Pinocchio finisca in prigione come punizione della sua sciocchezza: nel paese dei furbi la credulità è reato penale, e non c’è pietà per i Calandrini. Eppure proprio in questo stesso paese nessuno mai è finito in prigione per ben più spaventose balordaggini nel campo economico, che anzi vengono tuttora magnificate e sostenute apertis verbis. Nell’apologo burattinesco si nasconde invece un piccolo trattato di economia in ultimi esempi, su cui vale la pena di soffermarsi a riflettere. Perché l’insegnamento che possiamo trarne è che la sensatezza economica differisce dall’immediato buon senso, e che anche troppo spesso azioni apparentemente ovvie e pigramente condivise si rivelano rovinose per le conseguenze che ne derivano.
Prendiamo il tormentone della redistribuzione del reddito attraverso la leva fiscale. Sembra l’uovo di colombo: tassiamo i ricchi e diamo il ricavato ai poveri. I ricchi saranno solo un po’ meno ricchi. I poveri cesseranno appunto di essere poveri. Tutti saranno contenti.
Ora, se l’esperienza degli ultimi cinquantamila anni ha insegnato qualcosa, è l’inefficacia di questa ricetta. Per quanto suggestiva ed eticamente nobile, purtroppo semplicemente non funziona. Perché o la tassazione è blanda, puramente di facciata, e allora essa risulta ininfluente ai fini che si propone (non dobbiamo infatti trascurare gli altissimi costi di raccolta che lo Stato moderno affronta per organizzare il suo sistema impositivo: non potendo ricorrere ai gabellieri armati di frusta che popolano i sogni erotici di certa sinistra, dovrà organizzare un costosissimo sistema di intelligence, per di più esposto a tutti i rischi di corruzione e di malaffare che abbiamo visto in tempi recenti e che nei fatti vanificherà in modo pressoché totale i vantaggi dell’imposizione).
Se poi la tassazione è imponente, essa ottiene soltanto l’effetto paradossale, impoverendo i contribuenti, di ridurre in breve il gettito complessivo delle entrate, con effetti catastrofici. Pinocchio, dopo essersi grattato la zucca, avrebbe potuto raccontare al Giudice la favola dell’ICI. Quali sono stati gli effetti pratici del balzello? Anzitutto la caduta dei valori immobiliari, a seguito della corsa alla vendita delle abitazioni non necessarie a fini abitativi. Questo perché si è elegantemente trascurato che in Italia il grosso delle case non appartiene, come in altri paesi europei, a grandi società immobiliari o allo Stato, ma alle famiglie. Case dunque poste in vendita a basso prezzo, ma che i poveri, appunto in quanto poveri, non possono però egualmente comprare.
E se si vendono case, nessuno pensa a costruirne di nuove né tantomeno, in chi medita di disfarsi di un bene, nasce l’idea di investirvi risorse in lavori di manutenzione o di ammodernamento. Da cui il blocco dell’edilizia, e la necessità per il governo di correre a far costruire di corsa qualche centinaio di chilometri di autostrada, per dare un po’ di lavoro alla cantieristica sull’orlo della bancarotta, investendovi buona parte se non tutti i proventi della gabella. Da cui l’ulteriore beffa del mancato aumento e anzi della contrazione delle case date in affitto, perché nessuno è disposto ad impegnare a rendimento costante un bene di cui è prevedibile l’aumento degli oneri in futuro. E non è finita, perché paradossalmente la contrazione di liquidità delle famiglie, causata in non piccola misura da questa crisi della rendita immobiliare, deprimendo i consumi, abbassa l’inflazione e rende la lira più forte: rendendo quindi ancor meno necessario e appetibile ogni investimento in immobili destinato, in regime di valori monetari costanti, a non più rivalutarsi e a essere gravato di spese. Da cui una deviazione drastica del risparmio verso la rendita finanziaria, quando non verso decisamente la via dell’estero, implicitamente aggravando la crisi occupazionale e in definitiva la povertà dei poveri: che era appunto quello che si voleva evitare e contro cui si era partiti con trombe e fanfare.
Né è sostenibile la tesi che, sparito l’intervento privato, la mano pubblica possa sostituirsi, grazie ai fondi forniti dalle imposte. Questo sarebbe possibile (e lo fu in una certa misura nell’America rooseveltiana) in un paese con basso debito pubblico. Ma in Italia il denaro rastrellato deve essere impiegato forzosamente per la riduzione del debito e per spese correnti, e non va assolutamente ad investimenti se non in misura marginale e trascurabile.
Ma il nostro Giudice scimmione (che ricorda tanto altri autorevoli cacasenni oracolari) potrebbe a questo punto sentenziare che lo scopo dell’attività economica, in uno Stato democratico, è meritoriamente duplice: produrre ricchezza e provvedere alla equità sociale attraverso la sua redistribuzione. E che quest’ultima, in quanto atto etico, va perseguita in ogni caso, prescindendo persino dalle sue implicazioni economiche: fiat jus, pereat mundus.
Ora, a parte il fatto che nel mondo che perisce ci sarebbero per primi proprio i più deboli, cioè i poveri, resta il non trascurabile particolare che la redistribuzione forzata è sbagliata anche perché non raggiunge affatto i suoi destinatari ovvi, ossia appunto i poveri. È infatti ineludibile la conseguenza che, affidando la redistribuzione non alla ‘naturalezza’ del mercato, ma a strutture a questo scopo preposte, per una piccola quanto drammatica leggina di sociologia spicciola saranno appunto tali strutture a intercettare gran parte delle risorse e impiegarle per il proprio mantenimento: come dire che il primo beneficiario delle attività di Robin Hood è appunto lo stesso eroe in calzamaglia e parenti, così come notoriamente il popolo meglio alimentato dalla FAO è il popolo dei suoi dipendenti.
Il fatto è che l’idea di redistribuzione della ricchezza intesa come variabile da introdurre nel sistema economico attraverso una qualche forma di pianificazione è essa stessa un non senso: qualsiasi ricchezza, comunque prodotta, viene sempre in qualche forma redistribuita. Fatta esclusione per l’immaginaria e felice Paperopoli, ove appunto le ricchezze confluiscono per strade misteriose ma certe solo nel forziere di Paperone, in ogni altro gruppo umano del mondo reale, dalla piccola comunità di aborigeni australiani fino agli abitanti di una metropoli occidentale, non è nemmeno pensabile una forma di ricchezza che prescinda dalla sua circolazione e quindi, nei fatti, da un qualche processo di redistribuzione.
E questo per l’ottimo motivo che la ricchezza ha senso solo nel momento della sua utilizzazione attraverso il consumo: immaginare una ricchezza sottratta al suo impiego è immaginare una ricchezza soltanto teorica, come possedere una miniera d’oro sulla luna. Provate ad offrirla in banca come garanzia per un mutuo fondiario: magari quella miniera esiste davvero, sta là, è un bene reale, ci sono pure le particelle catastali e le fotografie della porta scattate dal telescopio Hubble. Solo, in quanto irraggiungibile, essa è sottratta alla possibilità di consumo e quindi nei fatti condannata ad una pura virtualità.
Ma poiché ogni sistema economico deve essere reale, non esiste alcun sistema economico che in qualche forma non eserciti una redistribuzione della ricchezza prodotta. Anche la ‘corrotta’ corte di Versailles provvedeva ad una capillare redistribuzione della ricchezza: lo faceva acquistando vestiti, gioielli e profumi (basta leggere un bellissimo romanzo, Il Profumo di Suskind, per farsi un quadro estremamente preciso dell’importanza del futile nei cicli economici), pagando - sicuramente male - lo stuolo di servitori di cui si serviva ed alimentando così la circolazione della ricchezza da questi ai loro subfornitori, ai contadini e via via fino alle forme residuali destinate alla beneficenza, che pure assorbivano una quantità di risorse superiore a quanto si potrebbe oggi pensare. E che la redistribuzione fosse totale è certificato proprio dall’immenso deficit della Corte di Francia: se il Re non avesse appunto drasticamente redistribuito il proprio reddito, per quale motivo avrebbe dovuto indebitarsi?
Per cui predicare che occorre redistribuire la ricchezza è tecnicamente un non senso: perché la ricchezza si redistribuisce sempre. Il fatto è che la redistribuzione può avvenire in modi molteplici, il peggiore dei quali è il semplice trasferimento di liquidità che non scaturisca da alcuna forma di aumento reale della ricchezza per attività produttive. È proprio quella forma, così diffusa nel Belpaese, di cui rimane vittima Pinocchio.
Che cosa succede infatti nella fiaba? Mangiafuoco, che gode di un certo reddito in ragione della sua attività di piccolo imprenditore di marionette, redistribuisce una parte di questo all’indigente Pinocchio, con lo scopo di assolvere ai bisogni primari di assistenza al vecchio padre e istruzione. Sono i famosi cinque zecchini d’oro, moneta chiaramente fuori corso ma sicuramente ‘maravigliosa’ come l’Euro. Il fatto che la redistribuzione avvenga sotto le forme di una libera elargizione e non attraverso la mediazione del sistema fiscale di Pinocchiopoli non muta i termini della questione. Ci troviamo quindi con un Pinocchio improvvisamente dotato di una capacità di acquisto. Egli, da giovane assennato, ripartisce il suo reddito in due parti: uno zecchino viene destinato al consumo (infatti servirà per pagare la cena luculliana consumata all’osteria del Gambero Rosso), azione utilissima per sostenere il mercato interno di Pinocchiopoli; gli altri quattro saranno invece impiegati in una speculazione finanziaria straordinaria, nella Sim ‘Campo dei Miracoli’. Egli è dunque animato dalle migliori intenzioni di questo mondo: vuole mettere a frutto il suo piccolo capitale. Ma essendo il ‘Campo dei Miracoli’ una scatola vuota come una finanziaria offshore con sede legale a Vaduz, quello che Pinocchio crede essere un investimento si rivela in realtà un semplice ulteriore trasferimento di liquidità verso due concittadini privi di reddito: il Gatto e la Volpe. Senza volerlo e a sue amare spese, Pinocchio non ha fatto che contribuire al sistema di protezione sociale di Pinocchiopoli. E il ruolo del Giudice appare quindi simile a quello del Fisco nel Belpaese: assicurare che nulla disturbi il meccanismo di trasferimento così impostato. Nel giro quindi di pochissimo tempo il reddito monetizzato passa dalle tasche degli spettatori delle marionette a quelle dei due astuti compari, realizzando un mirabile esempio di redistribuzione. La lezione da trarne per i contribuenti sembrerebbe quindi quella che il miglior modo di secondare la circolazione della ricchezza e la redistribuzione del reddito sia quella di non fare assolutamente nulla, limitandosi a versare silenziosamente quella parte di reddito che viene richiesta. Ed è certamente questa la posizione del Giudice, che infatti punisce Pinocchio per essersi lamentato di quella che egli a torto considera una disavventura.
Nel motivare la sua sentenza, il Giudice avrebbe dovuto aggiungere che il reale motivo della condanna sta appunto nel punire l’ostinazione del burattino a non voler accettare come naturale quella forma di redistribuzione del reddito di cui è stato protagonista. Il transito degli zecchini dalle sue tasche a quelle del Gatto e della Volpe non si discosta molto, a parte la formula pittoresca, dalla ritenuta alla fonte applicata dallo Stato italiano per finanziare il nostro sistema assistenziale. Il susseguirsi ormai con cadenza biennale delle ‘manovre’ fiscali non differisce in nulla dalla semina nel campo dei miracoli: in entrambi i casi un soggetto viene convinto ad utilizzare una parte del suo reddito per la realizzazione di una impresa impossibile, che sia una coltivazione di Zecchini o il risanamento del bilancio dello Stato: impresa impossibile, che il proponente sa benissimo essere tale.
Credendo quindi di arricchirsi, in realtà il povero Pinocchio non fa altro che finanziare per la sua parte il sistema di protezione sociale di Pinocchiopoli. Sistema che in definitiva funziona, visto che il meccanismo arriva a sostenere i redditi reali del Gatto e la Volpe. Anche questa situazione ricorda per molti aspetti alcune recenti vicissitudini dell’economia italiana. Il sistema di protezione sociale (che, si badi bene, in sé e per sé è necessario per l’equilibrio di ogni sistema, e non c’è appunto sistema economico, per quanto primitivo, che non ne possieda uno), è stato improntato non allo sviluppo della capacità produttiva, ma al semplice sostegno, ancorché spesso misero, ai consumi. Prendiamo ad esempio due strumenti possibili di tale sostegno: la cassa integrazione e il sussidio di disoccupazione. Apparentemente sono abbastanza simili: come gli zecchini di Mangiafuoco, essi assicurano un reddito a chi in varia forma, in quanto momentaneamente o perennemente escluso dal ciclo produttivo, non ne ha. Eppure i due strumenti sono in effetti diversissimi tra loro quanto a ricaduta economico-sociale del loro uso.
Dovendo comunque sostenere il reddito, si doveva scegliere una di queste due forme. Puntualmente si è scelta la peggiore, la cassa integrazione, con gli immancabili effetti devastanti sulla nostra economia. Naturalmente essa nasce coi migliori intendimenti che, come al solito, sono i più miopi, all’interno della teoria dei cicli economici prevalente presso i nostri economisti. Il ragionamento è più o meno questo: visto che la produzione è soggetta a cicli di sviluppo e di contrazione, nel corso dei quali essa sarebbe costretta a liberarsi di forza lavoro, creiamo uno strumento collettivo di sostegno per gli anni di magra, in attesa del ritorno della vacche grasse. Ma viene trascurato il fatto che il ciclo economico è dotato di una sua razionalità, che non può essere disattivata a comando: se la domanda di un bene si contrae questo significa (salvo poche eccezioni di natura congiunturale) che l’esigenza di quel bene si va esaurendo e che bisogna semplicemente passare alla produzione di un altro bene. La Cassa integrazione in definitiva ‘imbalsama’ il sistema economico, inducendo nel lavoratore un atteggiamento passivo e attendista, e nel datore di lavoro un comodo modo di eludere la necessità di aggiornamento e di ristrutturazione, addossando al bilancio pubblico il costo di sopravvivenza di imprese collassate.
Perché quindi in Italia si è scelta la Cassa, invece del più giusto e razionale sussidio di disoccupazione? Semplicemente per il combinato disposto di pigrizia intellettuale, insensatezza economica e delinquenza politica presente in grandi quantità nella prima e anche nella seconda repubblica, riassumibile in questo slogan: mentre il cassintegrato è un servo, il disoccupato è un uomo libero. Se anche marginalmente finanziato, esso si trasforma in una sorta di imprenditore di se stesso, meno manovrabile e in grado di scegliere tra le opportunità che il sistema offre, a differenza del cassintegrato che invece resta prigioniero psicologicamente del passato (salvo poi ritagliarsi spazi di autonomia illegale nel mondo del lavoro nero).
Quanti riflettono sul fatto banale che la fortuna di luoghi come la Sylicon Valley poggia anche sul fatto che grazie ai sussidi di disoccupazione una generazione di giovanotti di bell’ingegno ha potuto dedicarsi a sviluppare le proprie idee, invece di dover passare il proprio tempo in attività di vassallaggio presso partiti e sindacati che garantivano la Cassa integrazione? A fondamentale differenza del nostro cassintegrato, l’assistito americano non sa infatti aprioristicamente che tornerà in un modo o nell’altro a fare il lavoro di prima: questo fatto già di per sé costituisce uno stimolo fondamentale all’aggiornamento e allo spirito d’iniziativa, che viene invece da noi mortificato. A vantaggio dell’appartenenza e della militanza. Sia le baronie sindacali che il padronato trovano infinitamente più comodo ancorare la forza lavoro alla struttura dell’esistente. Ma se la diffidenza per le novità sono comprensibili nei secondi (per i quali ogni trasformazione aziendale comporta forti investimenti), resterebbe meno comprensibile il desiderio dei sindacati di incollare la mano d’opera alle imprese, che si spiega però benissimo pensando al meccanismo di finanziamento dei sindacati stessi, basato sull’esazione dei contributi effettuata per tramite dei datori di lavoro.
Resterebbe da spiegare la mancata ribellione dei cittadini a questo meccanismo penalizzante, che ci costringe a ricorrere ad una piccola schematizzazione, rozza quanto si vuole ma purtroppo veridica. I Pinocchi d’Italia non si ribellano perché nel Belpaese, a differenza degli altri tipi di somaro europeo, siamo riusciti a farci mettere sul collo contemporaneamente tutte e due le ideologie premoderne che scorrazzano per l’Europa, il cattolicesimo e il comunismo, che su tutto divergono tranne che sulla convinzione che ogni novità è intrinsecamente pericolosa e che ogni moto degli uomini scatena forme di sradicamento da esorcizzare con tutte le forze.
Pensate se le fabbriche di carrozze avessero potuto avvalersi agli inizi del nostro secolo di sostegni di questo tipo per contrastare l’avvento delle automobili: le nostre città sarebbero ancora percorse da nitrenti tiri a sei, ma al di là di una certa relativa eleganza d’insieme, e della discutibile gioia di poter annusare escrementi equini anziché benzene e di vedere i nostri politici raggiungere i Colli in landò anziché in auto blu, non pensiamo che il nostro grado di benessere ne sarebbe particolarmente avvantaggiato, né che la condizione dei poveri maniscalchi sarebbe particolarmente più felice di quella dei gommisti poveri.
C’è poi un’altra colpa del nostro burattino, che appare ad una lettura attenta del dispositivo della sentenza: Pinocchio, avendo svolto mansioni di cane da guardia, attore nella compagnia di Mangiafuoco e giratore di bindolo, viene anche condannato come doppiolavorista. Pensiamo allora a quel capolavoro di ottusità che è la battaglia contro il così detto secondo lavoro. Di tutte le possibili umane sciocchezze questa è quella che veramente grida vendetta al Cielo. In tutto il resto del mondo, saputo che un suo cittadino è disposto a svolgere un secondo lavoro, lo Stato gli si fa incontro festoso e scodinzolante, incoraggiandolo se possibile ad assumere anche un terzo incarico, e poi addirittura un quarto, se le forze gli reggono. Gli chiede ovviamente di non scaricare sul primo lavoro i costi del secondo, e magari gli estorce qualche soldino aggiuntivo di imposte, ma in cambio si preoccupa di fornirgli trasporti notturni, protezione sulle strade, consulenza e formazione, gli appiccica sul bavero patacche e cavalierati del lavoro, regala encomi e borse di studio ai figli: tratta in altri termini il bi o tri lavoratore per quello che egli è, una collettiva gallina dalle uova d’oro. Il metalmeccanico che nelle ore libere si trattiene a raddrizzare sportelli d’auto ammaccati nella carrozzeria sotto casa realizza un duplice forte vantaggio: arricchisce la capacità di reddito per la propria famiglia, e quindi sostiene il mercato interno; contribuisce a calmierare i costi dell’officina, che può così aprirsi anche ad una clientela più ampia. Agendo poi solo su quote marginali di lavoro, non elimina assolutamente possibili posti di lavoro per altri battilastra che fossero disoccupati: anzi, semmai, facendo profittare il proprio datore di lavoro, crea le premesse per un’espansione delle attività e per possibili assunzioni a tempo pieno, che egli non potrebbe comunque soddisfare. Inoltre, trattandosi appunto di secondo lavoro, egli non viene a gravare per nulla sul sistema previdenziale e pensionistico, ma anzi assume su di sé l’utilissimo compito di riserva di mano d’opera, e camera di compensazione per gli alti e bassi del mercato, che altrimenti si scaricherebbero drammaticamente sui lavoratori monolavoristi. Nel resto del mondo, si diceva: perché nel Belpaese, invece, il nostro eroe elude almeno trenta o quaranta disposizioni di legge e decreti e codicilli e, nonché essere esposto al pubblico ludibrio, è anche, se dipendente statale, passibile di licenziamento.
Ma la lotta al secondo lavoro è da noi solo l’anticamera al programma di riduzione dell’orario di lavoro. Idea questa sacrosanta in termini di civiltà: liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro è impresa meritevole e alta, e Pinocchio ne è tanto contento da partire subito per il Paese dei Balocchi. Ma se è ricca di civiltà, essa non ha però alcun fondamento economico. L’idea che lavorando meno si liberino posti lavoro è insensata, e di gran lunga di più che non gli equivoci sul Campo dei Miracoli: perché confonde il posto di lavoro come luogo fisico della prestazione d’opera con il posto di lavoro come valore aggiunto della prestazione: se invece di lavorare da solo otto ore ci mettiamo in due per quattro ore ciascuno, i posti di lavoro saranno anche due ma il valore aggiunto prodotto sarà sempre lo stesso, da doversi però dividere in due (anzi, se vogliamo essere precisi, leggermente inferiore per le diseconomie legate al cambio turno e alle spese per la produzione del reddito). Inoltre a parità di prodotto il gettito fiscale per lo Stato sarebbe minore. Ma la cosa peggiore è che, in termini globali, due redditi da mezzo milione sono molto peggio di un reddito da un milione intero (e qui il Giudice dovrebbe spiegare appunto a Pinocchio come, prese due famiglie di eguale reddito, risulti molto più ‘ricca’ tra le due quella nella quale il reddito viene prodotto dal minor numero di persone, se non altro per la possibilità degli inoccupati di dedicarsi ad altre attività potenzialmente fruttifere o comunque di supporto all’attività domestica).
Alla luce quindi di questi ben più gravi errori perché prendersela con il povero burattino? Egli è semmai la vittima dei nostri tempi: ingannato da consulenti finanziari senza scrupoli, è stato convinto da un’abile campagna promozionale ad investire in un nuovo campo di biotecnologie: in un epoca di manipolazione genetica, perché escludere a priori che dalla clorofilla possa essere ricavato un po’d’oro? Egli è dunque soltanto uno spirito avventuroso, fiducioso del prossimo e degli eventi, vero sale della terra, altro che testa di legno. E che dire poi dei due spregiudicati pseudo-finanzieri che lo ingannano? Anche in questo caso non facciamoci condizionare troppo da una campagna di stampa prevenuta e di parte. In fondo non hanno fatto che rastrellare una liquidità sottoutilizzata, che sarebbe in breve comunque finita nelle fauci di qualche altro speculatore o nella migliore delle ipotesi a dormire nel libretto di risparmio postale del povero Geppetto.
Che alla fine risulta il vero gabbato della vicenda: prima povero, poi ricco, poi di nuovo povero e mangiato dal Pescecane, senza mai saperlo, verifica su se stesso la verità del detto esse est percepi (che sarebbe poi, chiedendo scusa a Berkeley ‘cuore non vede occhio non duole’), transitando nelle diverse stazioni della dinamica economica senza di nulla avvedersi: come il popolo italiano, che oggi è tra i Grandi e domani sull’orlo della bancarotta, nell’Euro o nell’Africa, a seconda di quel che conviene.
Sia quindi resa lode a Pinocchio e soprattutto al Gatto e alla Volpe: e che poi sul loro conto Collodi sia costretto, per evidenti ragioni di censura savoiarda, ad esprimere giudizi limitativi e a preconizzarne incerti e tragici destini, è cosa con tutta evidenza riconducibile alla sana cautela politico-giudiziaria dell’Autore, che noi posteri sappiamo ben comprendere e perdonare.

(QR 52/53, gennaio/aprile 1997)