giovedì 21 luglio 2011

RomaNoir e New Italian Epic









L'anno scorso ho partecipato al convegno RomaNoir, organizzato dalla Sapienza. Vi si discuteva di New Italian Epic, argomento che nel recente passato ha furoreggiato sulle gazzette. Da buon relatore ho poi raccolto il mio piccolo contributo a braccio, in vista dei successivi atti. Lo ripubblico qui, perché magari d'estate è utile qualcosa per appisolarsi sotto l'ombrellone.



L’epica della New Italian Epic e il bastone di Sherlock Holmes.








Vi ricordate come inizia la storia del Mastino dei Baskerville? Quell’episodio mi è tornato alla mente leggendo nelle pagine teoriche della New Italian Epic la ricostruzione dei fatti politico-culturali che sono, o dovrebbero essere, all’origine del fenomeno in questione.
Allora più o meno la questione è questa: Holmes e Watson sono tornati nel loro buen retiro al 220b di Baker street e si trovano tra le mani un vecchio bastone da passeggio, dimenticato in casa da un misterioso visitatore passato a trovarli in loro assenza.
Holmes, animato dalla sua solita perfidia sadica nei confronti dell’amico, dalle risorse intellettuali infinitamente più modeste delle sue, non riesce a resistere alla tentazione e lo sfida a dedurre qualcosa di utile dall’oggetto in modo da farsi un’idea quanto più precisa possibile del suo proprietario. L’invito è posto in termini cortesi, addirittura zuccherini, ma è chiaro che lo sfotte un po’, invitandolo ad applicare i suoi metodi deduttivi, che ormai l’amico si presuppone dovrebbe padroneggiare. Naturalmente insieme sfotte anche un po’ noi lettori, ma noi lo amiamo e siamo disposti a stare al gioco, anzi ce lo aspettiamo come un rito che si ripete pressoché all’inizio di ogni sua avventura.
Punto sul vivo il povero Watson si lancia in un’ardita interpretazione della cosa, perfettamente plausibile, al punto da renderlo al termine quasi orgoglioso dei risultati e di se stesso.
Peccato che le sue deduzioni siano tutte fallaci, come scornato apprende subito dopo: quando l’amico dice la sua svelando l’arcano, confondendo lui e rallegrando noi che difficilmente accetteremmo di esser anche più tonti di Watson.
È un magistrale, piccolo entr'acte, che nell’economia del racconto ha da un lato la funzione di introdurci nella vicenda, e insieme quella di reiterare una delle convinzioni di base dell’investigatore: la fallacia di ogni indizio, se non sottoposto a un’analisi rigorosa.

Ora mi sembra che con la New Italian Epic ci troviamo come con il bastone di Sherlock Holmes: un complesso di argomentazioni e deduzioni perfettamente plausibili e razionali, ma che affondano su un’errata interpretazione dei fatti.
Premetto di non considerare questo assolutamente un motivo di sottostima del fenomeno: nel caso della NIE siamo infatti in presenza di uno di quei rari casi di movimento d’avanguardia in cui i risultati sul piano dei testi sono senz’altro più interessanti e notevoli dell’elaborazione teorica. E poiché sono convinto che sia sull’efficacia della pagina che alla fine si misuri l’importanza di ogni proposta letteraria, direi che è senz’altro alle opere che andrebbe semmai riservata ogni attenzione.


Non ho qui la minima intenzione né di riassumere né tanto meno di sviluppare i fondamenti teorici della NIE: lo hanno fatto ad abundantiam per primi i suoi teorizzatori e poi i molteplici esegeti, ammiratori o denigratori che siano. Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni, marginali ma spero di sostanza.

Prediamo l’assunto base della teoria: a partire dagli anni ’90 è nata e si è sviluppata in Italia una nuova generazione di scrittori che trae le sue origini dalla caduta del Muro e da Tangentopoli.
Il combinato disposto di queste due contingenze, tanto vicine diacronicamente da autorizzare più d’uno a correlarle con un nesso di causalità, avrebbe scavato nel “clima” narrativo italiano una sorta di crepa, sotto e dentro la quale avrebbe lavorato la nuova scuola, caratterizzata dal recupero e la nobilitazione di tecniche fino allora patrimonio minore e quasi esclusivo della trivialliteratur: un recupero effettuato con tanta forza e decisione da infrangere la barriera dei generi e, attraverso un processo di felice ibridazione, giungere a risultati inattesi e talmente esemplari da imporsi come nuova e pressoché unica maniera possibile di descrivere/interpretare il mondo contemporaneo e segnatamente la nuova realtà italiana.
Ora tale coincidenza temporale è senz’altro verissima, solo che muri e tangenti a mio avviso c’entrano poco o niente. E questo per due motivi: anzitutto la letteratura, o meglio nel nostro caso la narrativa, opera su tempi che sono necessariamente più lunghi di quelli della contingenza politica. Un libro uscito nell’anno X, a meno che non si tratti di un misero instant-book pensato o più spesso commissionato per lucrare alla svelta sull’evento del giorno, è in genere frutto di una gestazione che può anche durare anni.
Di conseguenza gli eventi non hanno quasi mai una ricaduta immediata e necessitante sull’atto del narrare, altrimenti dovremmo chiederci come mai lo scandalo della Banca Romana, alla fine dell’Ottocento, non abbia portato già allora alla nascita di una nuova maniera del narrare.
D’altra parte i fatti ci sono, ma come per il bastone di Holmes, l’interpretazione è diversa: nel periodo in questione avvengono anche due altre cose di diversa natura, che avranno una decisa influenza nella letteratura: una profonda trasformazione del mondo universitario, e un’altrettanto radicale ristrutturazione del sistema editoriale italiano.
Nel primo caso i crescenti elementi di privatizzazione introdotti nel sistema educativo, che sono nei fatti molto meno significativi di quanto non si voglia credere, ma comunque abbastanza significativi, spingono il mondo della ricerca e della didattica a un’apertura su aree che solo fino a pochi anni prima erano pressoché ignorate. Questo perché la proliferazione degli istituti universitari, unita alla necessità di attrarre un numero di studenti sufficienti a garantire organici spesso ipertrofici, reca con sé la necessità di aprire continuamente nuovi corsi di studio oltre a quelli ormai consolidati dalla tradizione.
È così che l’altra narrativa fa il suo ingresso prima timido e poi sempre più deciso sotto le volte dell’accademia, assurgendo progressivamente ad argomento di lezioni, convegni, seminari e addirittura corsi di laurea. Se a questo aggiungiamo un normale ricambio generazionale nel corpo insegnante, si spiega facilmente come la nostra università affronti nel corso degli anni ’80 un processo di ammodernamento frenetico ma anche virtuoso, senza il quale un’iniziativa come quella di RomaNoir qualche lustro or sono sarebbe stata semplicemente impensabile.
L’altra area in cui si fertilizza il terreno della nuova narrativa è quello dell’editoria. Nel giro di pochi anni, attraverso un complesso processo di acquisizioni, fallimenti e riconversioni, il campo dell’editoria si trasforma radicalmente, dando vita a quei grandi complessi e catene editoriali che caratterizzano oggi il panorama di tutto ciò che ruota intorno all’ideazione, la produzione e il commercio dei libri.
Questo processo di rapida industrializzazione, caratterizzato dalla scomparsa progressiva di tutte le realtà ancora sostanzialmente artigianali (un nome tra tutti, la Einaudi che nel 94 viene acquisita dal gruppo Mondadori, perdendo di fatto ogni sua autonomia industriale e culturale) e dall’arrivo nelle strutture direttive di una nuova generazione di manager.
La nuova dirigenza ha una caratteristica peculiare: a differenza di quelle che hanno agito nel settore da sempre, è costituita da uomini e donne che non vengono più dal mondo accademico, come era stato per oltre un secolo, ma da quello dell’amministrazione e soprattutto del marketing.
Questo fatto interrompe una consuetudine appunto secolare: il circuito per certi aspetti virtuoso instauratosi in Italia tra mondo della ricerca e dell’Università e mondo dell’editoria: virtuoso, ma anche a suo moto iugulatorio. Provate a guardare nei risvolti di una qualunque collana edita in Italia fino agli anni ’80 chi fossero i curatori, gli editor, i direttori editoriali: troverete soltanto nomi di professori universitari oppure di artisti o intellettuali comunque legati o accreditati presso il mondo accademico.
Tutto questo si attenua e poi scompare appunto nel periodo in esame: e la conseguenza è che il mondo editoriale, dominato appunto dal marketing, passa rapidamente a fornire non più quello che il lettore dovrebbe leggere, ma quello che si ritiene egli voglia leggere.

Senza questa premessa, appare difficile spiegare come sia stato possibile il sorgere di quello che a mio avviso è il presupposto, non tanto della NIE, quanto di tutta o quasi la narrativa contemporanea: la caduta della barriera prima intangibile tra narrativa colta e paraletteratura, premessa senza la quale non sarebbe stata possibile quella ibridazione dei generi che i sostenitori della NIE pongono giustamente alla base della loro operazione.
Una barriera talmente granitica e strutturata da aver resistito per ben quattro secoli, da quando il buon Ariosto si sentì tacciare di corbellerie il suo sforzo di dar vita a un’opera che cercasse di evadere dalle strettoie della codifica letteraria.
Ma tale caduta, appunto, ha poco a che vedere con il Muro e Tangentopoli, tanto da poter bene essere esemplificata da due fenomeni letterari lontani tra loro di ben quindici anni, diversissimi per intendimenti ed esiti, eppure intimamente connessi ed entrambi a loro modo padri di ciò che seguirà, per i motivi che cercherò di spiegare: Il nome della rosa di Umberto Eco e Gioventù cannibale del gruppo di giovani autori che a lungo si identificherà con il titolo.
Due opere dicevo diversissime, ma che entrambe hanno dato colpi insuperabili alla barriera. Colpi dati da due angolature diverse: nel primo caso è il nome dell’autore a guidare l’attacco, un fior di accademico di tutto rispetto che aggredisce la materia dall’interno, sorprendendo le difese degli avversari proprio nel punto dove meno essi si aspettavano un’incursione.
Nel secondo è invece il nome dell’editore in copertina, quel prestigioso Einaudi che aveva abituato il lettore a ben altre tipologie di prodotti, e che era universalmente ritenuto una garanzia ipso nomine per quanto editato.
Se infatti Il nome della rosa uscito per Bompiani fosse stato scritto da un qualunque pur bravo autore di genere, difficilmente avrebbe attirato un’attenzione maggiore di quanto non facessero all’epoca i romanzi di ambientazione medievale di Ellis Peters, editi però nella molto meno prestigiosa collana del Giallo Mondadori. E se la Gioventù fosse apparsa, invece che col crisma einaudiano, in un qualunque supplemento di Urania (cui secondo logica sarebbe stata destinata solo qualche anno prima) sarebbe presto transitata tranquillamente nel circuito delle bancarelle, insieme a tante altre antologie splatter e di effettacci di analogo tenore.

C’è però un altro elemento importante nella riflessione della NIE: il suo far perno a partire dal nome stesso sul concetto di una nuova epica. È dunque sostenibile l’idea che questo improvviso liberi tutti abbia portato alla nascita di una nuova forma d’epica, come sostengono i membri della NIE?
In un certo senso sicuramente sì, a patto di intenderci sul significato del termine. Se per epico intendiamo un racconto in cui si torni ad affrontare i termini del confronto tra il singolo e la storia, sia nel senso dell’esserne vittime quanto in quello di esserne artefici, allora indubbiamente sì.
A partire appunto dal Nome della rosa, la narrativa italiana contemporanea è tornata a porsi prepotentemente il problema della storia: sia tornando a esplorarne le pieghe più o meno palesi, sia interrogandosi sul suo senso profondo.
Spesso questo interesse ha preso le forme di una rinnovata passione per le teorie della cospirazione, del revisionismo storico, dell’ucronia: tutti modi per lasciar intendere che la storia è tornata ad essere quello che appunto è, un problema.
Anzi, meglio ancora, una struttura labirintica in cui, perso il senso destinale della medesima, azzerata ogni forma di ottimismo positivista sulle sue sorti magnifiche e progressive, incamerato una volta per sempre il senso dell’apocalisse e della sua fine, seppellito definitivamente ogni dio che potesse in qualche modo darle luce e senso, non si può fare altro che perdersi.
Quanto più i narratori della NIE immergono le mani nel calderone della modernità, tanto più spesso le ritraggono inorriditi, per cercare scampo nella fuga: e se la storia è in fondo il riassunto di ciò che è, fuggire dalla storia significa cercare rifugio in ciò che non è più, il passato, o ciò che non è ancora, il futuro. Da cui tante fortunate ibridazioni con il genere fantascientifico o con quello del romanzo storico.

Ma la narrazione di un’odissea nel labirinto, alla ricerca di un’uscita che forse non esiste e tra pericoli e mostri continuamente risorgenti, che cos’è alla fine se non un’avventura? E un’avventura non ha forse, sempre, i contorni di una storia epica?
Verrebbe a questo punto quasi da pensare che sarebbe più semplice riformulare il quadro della NIE nei termini appunto di una nuova narrazione d’avventura. Anche per dirimere i dubbi relativi alla corretta interpretazione del termine popular , specie di suffissoide che normalmente viene accompagnato al termine Epica nelle teorizzazioni della NIE. Certo usato con voluto riferimento alla complessa galassia della pop culture, di cui appunto la paraletteratura insieme con la televisione e il fumetto costituisce gran parte. Ma probabilmente con un occhio rivolto in particolare all’area ispanico-sudamerinda: che certo ha fornito all’immaginario collettivo, attraverso grandi autori come Marquez, significativi esempi di nuove forme di epica.
Mi chiedo però il motivo profondo di tale aggettivazione: qualsiasi forma di epica è in re popolare, non solo nell’accezione in questione ma anche in quella forse più sinistra di volkish.
Se il suo scopo è infatti quello di trasmettere al popolo i valori e le gesta delle élite, avere una veicolazione popolare dei propri contenuti è una sorta di conditio sine qua non: una narrazione epica che non sia nelle forme e nei contenuti popolare semplicemente non è epica. Il conte di Montecristo è una narrazione epica, Dei delitti e delle pene no. Anche se entrambi i testi si confrontano con il problema di una dike sottratta a ogni istanza metafisica e ricondotta nei limiti dell’azione umana laica.
Ma il problema interessante secondo me non è tanto stabilire esattamente cosa intendano per epica i teorici della NIE: come per ogni gruppo che si costituisce o, come nel caso, si riconosce ex post, è ovvio che i suoi sostenitori tendano ad esaltare peculiarità e differenze, sottolineare originalità e differenze rispetto al prima ed eventualmente individuarne di nuove.
Tali analisi sono state già fatte in abbondanza, e chi ne sia interessato potrà fare ricorso all’abbondantissima letteratura in merito.
E poi ha davvero poca importanza chi sia titolato a dire prima io, nel campo dell’evoluzione letteraria: mai come in questo campo esiste sempre un antenato o un anticipatore che si possa sempre chiamare a sostegno delle nostre tesi o al contrario proporre come testimonial a denigrazione di quelle altrui.

Quello che invece trovo veramente interessante è il concetto stesso di epica, recuperato come fondamento di ogni possibile narrazione. In altri termini, viviamo davvero in una stagione che in qualche modo si presti a un ritorno della narrazione epica? Ed è possibile immaginare una narratività dell’immediato futuro che faccia dell’epica la struttura portante del fare letterario?
Io credo che la risposta sia affermativa, in entrambi i casi. E che in questo davvero la NIE abbia colto un tratto essenziale e, a suo modo, davvero d’avanguardia. E come per ogni teorizzazione d’avanguardia, appunto, alla fine è forse più importante il quadro generale della riflessione che non i singoli argomenti portati a sostenerla.
La narrazione epica nasce ogni qual volta una società si trova a dover affrontare un processo di cambiamento tumultuoso al proprio interno: una migrazione, un riassetto delle strutture profonde della propria economia, un ridisegno degli equilibri sociali, una riformulazione dei valori etici di base su cui si fonda il proprio patto di convivenza.
Il tutto necessariamente in un quadro di oscurità e di incertezza, nel quale la narrazione si inserisce per immaginare, proporre, attivare possibili modelli di risposta alle esigenze della collettività.
Ed è sostanzialmente in due modi che questo avviene: nella forma della quest o in quella dell’aventure.
Nel primo caso allorché il narratore immagini un possibile approdo, un punto d’arrivo per l’azione del suo eroe preesistente all’inizio dell’azione, e che ne costituisce da un lato il fondamento teorico e dall’altro lo stimolo costante e necessitante al suo sviluppo.
Nel secondo quando invece tali fondamenti non esistono ancora, ed è quindi nella struttura profonde della narrazione stessa che andranno ricercati, quasi nell’autonomo agire dei personaggi.
Ma entrambi condizionati da un incombente pericolo: il rischio del fallimento totale, fino all’annientamento. Un pericolo che accompagna tutta la dinamica dell’azione, ne permea gli snodi essenziali e crea una sorta di compagno-ombra dell’eroe, un’attesa della fine e dell’apocalisse continuamente rimandata ma mai esorcizzata a fondo.
In fondo l’epica è questo, uno scontro disperato contro l’entropia del sistema, che ineluttabilmente tende a trarre verso il fondo e la sconfitta.
Se adesso pensiamo alla nostra condizione (non saprei nemmeno se definirla ancora post-moderna, oppure in omaggio ai teorici della NIE respingere con sdegno questo termine in favore magari di qualche sorta di neo-modernismo), difficilmente possiamo sottrarci alla sensazione di vivere appunto in un universo di tal fatta.
Un universo in cui l’apocalisse ha assunto il volto, quello sì post-moderno, della globalizzazione.
Un fenomeno davvero epocale, per il quale non riesco a trovare nulla di paragonabile nelle epoche precedenti, se non forse l’arrivo dei popoli indoeuropei nel nostro continente. E di cui solo ora si cominciano ad avvertire tutte le drammatiche conseguenze, soprattutto nei suoi aspetti di totale crollo delle certezze e dei sistemi di valori su cui si reggeva il vecchio ordinamento: terreno fertile per eccellenza al ri/sorgere dell’epica.
In questo senso, davvero, la narrativa del futuro dovrà essere necessariamente epica o, semplicemente, non sarà.
E qui la NIE ha sicuramente avuto un’intuizione felice, consapevole o no lo diranno i tempi e i posteri. Perché dovunque approdi il processo di globalizzazione, che sia un’armoniosa convivenza di popoli diversi in un più avanzato e più giusto equilibrio economico come vogliono i suoi cantori, o non piuttosto un’epoca di nuova barbarie caratterizzata da conflitti spaventosi e da una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza, come più segni lasciano intendere, è certo che la futura distribuzione mondiale delle attività ha già di fatto assegnato all’Occidente il suo estremo ma totale dominio: quello della forma.
Il fenomeno cui assistiamo è infatti emblematico. Mentre in tutti gli altri settori della produzione il trasferimento delle tecnologie sta determinando la nascita di un’industria locale dalle caratteristiche innovative che si pone ormai sempre più spesso prima in concorrenza e poi in antitesi con quelle dell’Occidente, nel campo della produzione di forme avviene il contrario: il cinema, la televisione attraverso soprattutto le sue serie, il fumetto, il racconto di genere si sono ormai imposti monopolisticamente nelle tipologie elaborate qui, e non appaiono in alcun modo sostituibili da altre.
Anzi, semmai è evidente il processo di corsa ad impadronirsi di tali tecniche da parte degli artisti del resto del mondo, prima per riecheggiarle e poi per farle proprie.
E se è molto probabile che saranno proprio i temi epici a caratterizzarla, questa forma del mondo scaturirà appunto dalle forme di epica che la nostra narrativa sarà capace di elaborare. Saremo ormai noi gli architetti dell’immaginario del mondo prossimo, nel bene o nel male. Magari guideremo un’auto indiana, mangeremo sushi e ci vestiremo di pezze cinesi, ma al cinema o tra le pagine saranno sempre le nostre storie quelle che troveremo. Perché ad ogni forma di colonizzazione può far seguito la decolonizzazione relativa, tutte tranne una: la colonizzazione della mente.
E l’impossibilità di liberarsi da una catena non è, a ben guardare, anch’essa un magnifico oggetto per narrazioni epiche? Probabilmente i teorici della NIE non nutrono ambizioni planetarie: ma nel processo tumultuoso di trasformazione che si è ormai messo in moto anche le loro opere si muovono in questa direzione.

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