Giulio Leoni
IL MODELLO DI LOVECRAFT
Eliot, amico mio.
Non ho più visto Richard Upton Pickman. Sembra
scomparso nel nulla, proprio quando la sua fama sinistra cominciava a far
breccia nel circolo degli appassionati d’arte della nostra città. Ma sono davvero
curioso di saperne di più: pensa, quell’uomo freddo, razionale che abbiamo
conosciuto, che di colpo si scopre un talento visionario superiore anche a quei
Surrealisti francesi di cui si parla tanto. Anche a me è sembrato impossibile,
da principio. Stasera comunque tornerò nel suo vecchio studio, nel NorthEnd,
per cercarne qualche traccia. Ti farò sapere.
«Cercate di sorridere» disse il
fotografo spuntando da sotto il panno scuro dietro la macchina. «Se rilassate
ancora la mascella verrete nella foto, come dire.. con un’espressione attonita…»
L’uomo di fronte all’obiettivo si
ricompose, agitandosi nervoso sulla sedia di posa. Le sue labbra sottili si
arricciarono per un attimo in sorriso forzato, ma subito tornarono a contrarsi
come se fossero fatte di gomma. Sulla lastra smerigliata riapparve la stessa
espressione innaturale, proprio nel momento in cui si apriva l’otturatore.
«Ascoltatemi!» esclamò il
fotografo, visibilmente infastidito. Estrasse con un gesto brusco la lastra
bruciata e la gettò via sul mucchietto delle altre che l’avevano preceduta. «I
vostri lettori si faranno di voi un’idea triste, se non collaborate. E invece
vogliamo che uno scrittore abbia un’aria, diciamo così, più fiduciosa, allegra!
No? Siete uno scrittore, vero?»
L’uomo annuì, tristemente. «E
allora? Quando vi mettete alla scrivania, cercherete di scrivere al meglio
delle vostre possibilità, no? Ma se vi presentate ai suoi lettori in copertina
con questa faccia, chi vuole che si interessi alla vostra opera?»
«Bè.. io…» provò a replicare
l’uomo, schiarendosi forzatamente la voce. «Temo di essere proprio così…»
«Ma no che non siete così! No!
Vedete? Adesso che mi parlate, che siete tranquillo, la vostra espressione
torna normale, il viso riacquista proporzione, direi addirittura nobiltà di
tratti. Non sembrano più due facce incollate a metà. Non mi avete detto di
discendere addirittura dai Pellegrini? E allora! Su, riproviamo! Fermo…»
Lo scatto dell’otturatore ruppe
il silenzio, seguito da un’esclamazione di disappunto. «Ma no, avete ancora
contratto le labbra!» tornò a esclamare il fotografo, lasciando cadere
sconfortato le braccia lungo i fianchi. Sbuffò, cercando poi di trasformare il
soffio nell’accenno di un ragtime allora in voga. «Sentite, signore, vi parlo con sincerità. Il
mio studio ha una certa reputazione, qui a Boston, ho clienti che vengono da
tutto lo Stato a farsi ritrarre. Non posso mandare in giro con il mio marchio
un’immagine di cui debba vergognarmi!»
L’uomo in posa sembrava essersi
fatto più piccolo, sotto il peso del rimprovero. L’altro continuava nel suo
fare indispettito. Aveva rimesso bruscamente il coperchio sull’obiettivo, e
stava raccogliendo le lastre bruciate. Gettò tutto il mucchio in una scatola di
cartone, poi si volse ostentatamente verso la pendola alla parete, gettando
un’occhiata di traverso al cliente come se volesse sollecitarlo a congedarsi.
Ma poi qualcosa nell’aspetto
timido e indifeso dell’uomo lo rabbonì. Sembrava sul punto di scoppiare a
piangere. «Su, non fate così… sentite mister Lovecraft, ho pensato a un’altra
soluzione, se avete davvero bisogno di un ritratto per i vostri libri. C’è un
mio amico, un pittore. Molto bravo, soprattutto negli schizzi dal vero, un
ritrattista eccezionale. Forse è quello che serve per voi, un artista che sappia
cogliere la vera essenza della vostra immagine, e non quella superficiale e
fenomenica che necessariamente impressiona la lastra fotografica. Datemi
ascolto, andateci, vi scrivo l’indirizzo.»
L’uomo cercò un biglietto, e
tracciò rapido poche righe. Poi tornò a sollevare gli occhi sul cliente. «Non
temete, pratica delle tariffe molto ragionevoli» aggiunse in fretta, dopo aver
gettato un’occhiata agli abiti dell’altro, sobri e di buon gusto ma certo di
modesta qualità. «Talvolta addirittura so che ritrae i suoi modelli
gratuitamente, se trova in loro qualcosa che colpisce il suo genio artistico.
Ah, prendete pure l’ultima lastra, ma non usatela, è un consiglio da esperto»
aggiunse mentre lo congedava, mettendogli in mano il contenitore di legno
sottile.
H.P. Lovecraft si ritrovò in
strada. La luce esterna e il rumore confuso del traffico per un attimo lo
stordirono. Stringeva in mano il foglietto: cercò di mettere a fuoco lo
scritto, e rabbrividì. Non tanto per il nome del pittore: leggere Richard Upton Pickman lo tranquillizzò, con quel sonoro
richiamo ad almeno un paio delle famiglie più antiche e illustri della città.
Ma la strada del suo studio era proprio nel fondo più scuro del NorthEnd, il
quartiere malfamato. La zona della città verso i vecchi docks che nessun bostoniano degno di questo nome si sarebbe mai
sognato di frequentare. Un ammasso maleodorante di edifici cadenti e di case di
malaffare, dove un’accozzaglia di immigrati e di avventurieri aveva scavato le
sue tane da quando gli abitanti l’avevano abbandonata in cerca di quartieri più
sani e sicuri.
Prese per
Battery Street, e poi costeggiò la vecchia darsena sulla Constitution
Wharf, fino a raggiungere Greenough Lane. Tutto il quartiere sembrava
circondato da una barriera invisibile: le strade alberate, gli ordinati viali
della città borghese erano spariti, per sciogliersi in un ammasso informe di
costruzioni, che sembravano debordare dall’originaria pianta squadrata
dell’antica città. Ondate di irlandesi, polacchi, ebrei e italiani, ciascuna
con le sue forme, le sue parlate, i suoi odori avevano impresso allo spazio la
loro violenza, curvandolo e dilatandolo fino all’inverosimile per accogliere
sempre più numerose masse di disperati.
Lovecraft continuava a procedere,
sempre più infastidito, cercando di non sfiorare le muraglie sporche che a
tratti spuntavano fuori con spigoli imprevisti, come se nella notte gli edifici
stessi cercassero di farsi spazio gli uni contro gli altri. Dopo aver seguito
un tratto di Hull Street, la via mediana del quartiere in fondo alla quale
svettava il campanile neogotico della chiesa di Old North, aveva svoltato in
una piccola traversa. La viuzza sprofondava verso la zona del vecchio porto:
controllò ancora una volta l’indirizzo e gli parve di essere giunto. Una porta
stretta su quello che una volta doveva essere stato un magazzino, aveva appesa
una targhetta di legno scrostato con sopra scritto Peters – pittore.
Bussò, senza troppa decisione.
Attese inutilmente alcuni interminabili secondi, e già stava per affrettarsi a
tornare indietro, lieto che non vi fosse nessuno. Dentro di sé era pentito di
aver accolto l’invito. Ma con uno stridio la porta girò sui cardini, aprendo
una fessura da cui si sporse qualcuno. Un uomo alto, dalla faccia esangue come
cera.
«Cosa volete?» chiese l’uomo, che
continuava a restare seminascosto nel vano della porta, ostruendo il passaggio
come se non desiderasse affatto incoraggiarlo a entrare.
«Mi chiamo Lovecraft. Cercavo il
signor Pickman, ho avuto questo indirizzo. Vorrei… vorrei un ritratto. È
possibile? Di piccole dimensioni» si affrettò ad aggiungere. L’altro lo squadrò
da capo a piedi perplesso.
«Come avete saputo di me?» chiese
sospettoso, invece di rispondere alla domanda.
«Il fotografo di Newbury
Street, è lui che mi ha indirizzato…» balbettò Lovecraft, schiarendosi la gola.
«Sareste voi il signor Pickman?»
«Volete un ritratto?»
l’interruppe brusco l’altro, di nuovo senza rispondere.
«Sì… un’immagine per una
rivista…»
«Una rivista?» replicò l’uomo con
aria schifata. «Mi avete preso per un pittore di cartelloni?»
«No, per carità… volevo dire un
mio ritratto… per una pubblicazione d’arte. Una rivista letteraria…» esitò
ancora Lovecraft, sempre più a disagio.
«E perché non una fotografia?»
insistette il pittore, sempre con il suo tono diffidente. Gli teneva gli occhi
addosso, mordicchiandosi le labbra. Sembrava studiare il suo aspetto con
curiosità. Senza dargli tempo di rispondere si spostò di lato, come per
osservare meglio il suo profilo. Poi allungò di scatto una mano verso il suo
volto, afferrandogli la mascella ed esponendola alla luce. «Pare che
l’obiettivo non riesca a cogliere la mia reale espressione…» bofonchiò
Lovecraft, impedito dalla stretta ferrea dell’altro. Avvertiva un senso di
freddo inumano, come se fosse la mano di un cadavere a stringergli le guance.
«Sì… capisco» mormorò l’altro
dopo un istante interminabile, lasciandolo finalmente andare. «Ma dovrete
posare a lungo. Io non dipingo ciò che appare per un attimo. Io ritraggo la
verità.»
«La verità? Certo, anche io
scrivo la verità…» replicò Lovecraft, cercando di riprendersi.
Il pittore gli lanciò uno sguardo
di sufficienza, alzando le spalle. «La verità! E cosa sarebbe la verità, per
voi?»
«Be’, io scrivo racconti del
terrore. Cerco… cerco di dare ai lettori un’immagine veritiera dell’orrore che
striscia sotto la superficie delle cose…» rispose Lovecraft. Si sentiva le
guance in fiamme, sempre più imbarazzato. Aveva scritto un intero saggio
sull’orrore nella letteratura. Ma adesso non riusciva a trovare nemmeno una
frase sensata per rendere le sue idee. Era come se lo sguardo acceso dell’altro
lo paralizzasse.
«Voi non sapete quello che dite.
L’orrore non si nasconde dietro le cose. È qui, davanti a noi. Invade ogni più
piccolo spazio vuoto dell’esistenza, saltella tra le nostre gambe come una
miriade di topi che leccano e avvelenano le nostre case. Se la mente degli
uomini fosse in grado di correlare tutti i piccoli frammenti di verità che pure
la vita ci pone sotto gli occhi ogni giorno, la nostra vita sprofonderebbe
nella follia. Basta osservare con attenzione, signor… Lovecraft, avete detto?»
«Sì, Howard Phillips Lovecraft.»
«Lovecraft…opera d’amore» osservò il pittore, scuotendo la testa. «Ve ne
servirebbe un altro, di nome. Ma venite, credo che potremo intenderci.»
Si fece da parte, lasciandolo
entrare. Oltre la porta si apriva un grande spazio vuoto, annerito dal fumo
delle lampade che per oltre duecento anni avevano illuminato i carichi dei
vascelli diretti oltreoceano, ammassati in attesa dell’imbarco. Ma lungo le
pareti di assi fradice giacevano ora allineati alla rinfusa oggetti che mai gli
antichi marinai avrebbero accettato sui loro legni. Da cui sarebbero anzi
fuggiti con terrore, invocando la protezione di Dio. Enormi quadri, coperti
sommariamente da vecchie tele che qua e là lasciavano trasparire squarci delle
immagini dipinte. E in quelle immagini Pickman aveva evocato l’inferno.
Il ricordo di altri pittori
dell’incubo gli attraversò la mente: ma nemmeno Fuseli, o Doré, o Sime, o
Angarola avevano mai raggiunto nelle loro opere quel vertice di profondo e
assoluto orrore che adesso gli feriva gli occhi, trasudando dalle tele come una
bava maligna.
Si arrestò barcollando. Ma subito
la mano gelida del pittore gli strinse il polso, costringendolo a proseguire
verso la testa di una scala, che sprofondava ripida nel pavimento. «Seguitemi,
è là sotto che dipingo le mie opere. Lì» aggiunse con un ghigno «nessuno ci
disturberà. Che avete con voi?»
«Cosa? Questa? È la lastra del
fotografo, quello di cui vi ho parlato…» ripose Lovecraft, affrontando
titubante i gradini sconnessi.
Non pensare che sia impazzito, Eliot. Ma credi, ti prego, a ogni parola
che ti ho detto! Esiste davvero un orrore insondabile che si cela nelle
profondità del NorthEnd, e Pickman prima di sparire deve essere entrato in
contatto con quell’abominio. Ho qui tra le mani lo schizzo che era incollato a
quello che forse è il suo ultimo quadro, “Ghoul che scarnifica un cadavere
nel cimitero di Mount Auburn”. E Dio mio, Eliot! Non è
uno schizzo, come pensavo! È una lastra fotografica, presa dal vero! Nel quadro
che Pickman ne ha ricavato i tratti del ghoul sono stravolti dal movimento
rabbioso delle fauci, ma è quello stesso ritratto nella lastra, te lo giuro,
anche se nella negativa appare compassato, quasi inoffensivo! Sembra un normale
essere umano, solo nello sguardo attonito si intuisce il demone che lo agita… Pickman
deve averlo incontrato in una delle sue scorribande notturne tra le tombe, e lo
ha fotografato per servirsene poi nel suo studio. Mio Dio, Eliot, la febbre mi
scuote ogni muscolo, non riesco più a scrivere…