lunedì 13 giugno 2016
Automi, estetica e riflessioni sul senso.
Alla fine del 700, al tramonto di quel secolo che aveva visto il nascere dell'uomo macchina, il barone Von Kempelen costruì un simulacro non più del solo movimento, come il suo predecessore Voucanson, ma una forma sensibile dell'ingegno stesso: realizzò, in foggia orientale, il famoso giocatore di scacchi meccanico.
E per alcuni decenni, prima di scomparire misteriosamente, il suo Turco meraviglioso percorse le Corti d'Europa offrendosi come segno e semantica marca del Genio stesso. Senza saperlo, il suo costruttore verificava con molle, legname e caucciù il vichiano principio che regola il conoscere: Verum idest Factum.
Se allora noi riuscissimo a produrre un modello funzionante dell'opera d'arte avremmo finalmente colmato lo iato tra il senso e la sua rappresentazione, che devasta sempre ogni possibilità reale e profonda di comprensione del segreto del Testo. Sentiamo certamente la presenza di una `trasparenza' incolmabile nella sua dimensione virtuale. E non ci sembra un caso che la costruzione di tale modello, e quindi la fondazione di una teoria estetica coerente, sia un compito che l'uomo occidentale si è posto solo in tempi storici relativamente recenti, quando la riflessione sulla cosa ha preso il posto della consistenza della cosa stessa.
Ma sappiamo che tale modello non è dato, se non in via approssimata e allusiva. E se scaviamo in tale opera di laboriosa orologeria, non ci sfugge la singolare affinità che lega la struttura dell'Opera con quella dell'Automa: sotto il diverso epifenomeno, entrambe danno luogo fondamentalmente ad una rappresentazione, ad una simbolica coreografia.
Il Testo è invero un atto di linguaggio specialissimo: è probabilmente quanto più si avvicina ad una sorta di rilettura della struttura profonda del Logos. È ciò che una civiltà, attraverso le sue strutture letterarie, `ricorda' di tutto il dicibile. Ma poiché a livello profondo il parlabile e il reale si confondono, il Testo accede in una sua qualche misura alla struttura profonda del `reale' stesso: a livello profondo il reale è quindi il vero trasparire del Logos, la `parlabilità' dell'essere.
E tale accesso è suggerito e poi realizzato secondo i modi dell'interrogazione e della sostituzione: è implicita infatti, nella pratica dell'opera d'arte, sia sul fronte della codifica che su quello della lettura, la sensazione di essere costantemente in presenza di un atto di sostituzione. O, meglio, del completamento di una spaventosa mancanza. Nello stesso modo in cui, come sappiamo ormai per certo, nella vuota cavità del Turco era celato qualcuno, svelato dall'acuto Poe, che lo completava.
E cos'è il lavoro artistico se non, in definitiva, lo sforzo di `completare' il tessuto del mondo, di cancellare quegli interstizi vuoti che si annidano nella percepibilità e parlabilità delle cose, per ritrovare il filo di Arianna che ci guidi `nel' labirinto, prima ancora che `fuori' dello stesso?
L'opera d'arte è, ogni volta, la risposta ad una mancanza di comprensione del meccanismo del mondo. È un tentativo di fingere in un universo possibile lo schema logico dell'universo dato. E, come tale, è un atto essenzialmente drammatico, perché il momento del dramma, la mimesi dolorosa del reale, si manifesta nel suo apparire sempre nell'atto del rispondere e mai invece in quello del domandare.
Il tempo della domanda è il tempo mitico dell'uomo, è il tempo in cui l'uomo siede accanto agli dei e chiede la misura della loro indecifrabilità. È il tempo in cui l'intellezione del mondo e talmente incerta e in definitiva procrastinabile da consentire ancora la fuga nelle pieghe dell'immaginario inorganico e inorganizzato. Quando si interroga, proprio l'indifferenziazione della domanda è ciò che garantisce del proprio essere e dei propri limiti, ciò che consente di non porre in gioco mai del tutto l'unicità della nostra percezione del reale, di non scivolare in quella follia interpretativa che perverte e distrugge, se liberata, l'univocità dell'interpretazione.
L'interrogazione è ciò che in definitiva meglio ci apparenta al mondo animale, ai suoi confini etologici: anche l'animale interroga il suo habitat e chiede ed esso alcune risposte per sopravvivere, anche l'animale disseta nella domanda la sua ansia di conoscenza. Ma nella domanda si arresta e si estingue.
Viene invece per l'uomo il tempo di rispondere: è insita nella sua specificità la necessità di trascendere la dimensione mitica dell'attesa, di non chiedere risposte ma di fornire. Le ombre della Caverna cessano di esercitare la propria forza fascinatrice e l'uomo crea i suoi nuovi e specifici simulacri. Anche il nostro Turco, lungi dal porre domande, costituiva invece con la sua massiccia presenza un tentativo di rispondere, violando però nel contempo la fondamentale legge della natura, che chiede all'uomo il solo silenzio. È questo atto di hybris che determina la condanna platonica dell'arte, questo aggiungere al mondo il parto impuro della mente umana, questo non voler soggiacere alla legge divina del già Dato, legge che confina l'essere nei confini del prescritto e del determinato. L'arte si apre dunque al regno del Rispondere, già segnata dal crisma della condanna e del dolore, modella i propri fantasmi cercando di violare in divieto, di aggirare un impedimento che la ragione stessa dell'essere divino le impone.
Questo rispondere che si organizza per forme assume la configurazione di un aggiungere al mondo, di un aumentare i percorsi di intendimento e di lettura. E questo atto acquista i contorni indifferibili del dramma. Del dramma, perché si inserisce in un contesto relazionale, si modella come (insieme) protagonista e deuteragonista del gioco dell'essere. Nella accezione aristotelica del verosimile, il testo estetico si pone come luogo dell'esperienza possibile, vive di una propria vita segreta, di una alterità misteriosa e insieme scoperta rispetto all'essere. Si confonde tra le ombre della Caverna, ombra anch'essa e insieme
cosa. Perché chi scrive parole scolpisce cose, forse nella materia di cui sono fatti i sogni, ma che certo è più duratura del bronzo.
Il testo estetico si invera così nella sua immanenza nella forma drammatica, poiché viene a simulare una imperscrutabile assenza: le cose si riconducono alla loro fonte, secondo necessità, ci disse al principio Anassimandro. Dà corpo ad un teatro di ombre o, meglio, ad un muoversi affastellato di automi.
V'è quindi una indisponibilità nel Senso, una indecidibilità nascosta e sofferente? Forse in questa aurea misura tra l'interrogare e il rispondere risiede allora il suo segreto: il Senso è una violazione della libertà, come conseguenza della sostituzione della categoria del Necessario a quella del solamente Possibile. Il regno della libertà è quindi una ragione anteriore al manifestarsi del Senso. Ma quale enigma è sotteso allora ad un dramma, ad una necessità, ad una estensione? Quale gioco di specchi e di rinvii si alimenta subito sotto la superficie imperscrutabile?
Il Turco di Von Kempelen, prima di perdersi nei meandri della Storia minore, fu visto ergersi a giudice del comportamento dell'uomo: ebbe dei dissapori con Napoleone, insultò Caterina di Russia, lui che era in fondo altrettanto umano delle sue vittime. Come l'Opera d'arte, non era forse che un disegno del labirinto, incompleto e incolpevole, in rivolta contro le leggi del suo costruttore.
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