Mi capita spesso di sentirmi chiedere: ma quanto di vero c'è in quello che racconti? E qual è il rapporto tra le tue storie e la realtà?
La mia risposta è sempre diversa, a seconda dell'umore del momento, della maggiore o minore simpatia del richiedente, della occasionale disponibilità di tempo. Spesso sono risposte articolate, talvolta concettose, altre volte più generiche e sbrigative ma comunque ogni volta mi metto lì e ne formulo una, perché anche l'ultimo dei lettori ha diritto a una sua seppur piccola soddisfazione.
Se avessi pazienza, o meglio ancora una graziosa segretaria al seguito con il compito di registrare le mie risposte, potrei anche metter su un bel librone di narratologia stampandole tutte in fila. In anni ormai di presentazioni, incontri, convegni, interviste e poi chiacchierate tra amici e blog e Facebook e email ne avrei a centinaia da ripetere.
E invece niente, perché sono un uomo di coscienza, con una sua anche se strampalata moralità. E come tale so che la risposta vera è una sola: tra quello che scrivo e la realtà non c'è assolutamente alcun rapporto.
Ohibò, si dirà. E allora l'aggettivo "storico" che spesso accompagna i tuoi titoli come si giustifica? Se c'è qualcosa di reale non è appunto il dato storico? Se la "verità" non è altro che "ἀ–λήθεια" ossia ciò che non si nasconde, cose ci può essere di meno occultabile di un fatto ormai accaduto, e che il suo stesso accadimento consegna nelle nostre mani cristallizzato e inamovibile?
Ciò che è accaduto non è vero in essenza?
Ahimè no, amici miei: ciò che è accaduto è una somma di ingannevoli apparenze. Perché su tutti i fatti accaduti una dea burlona, anzi la più irridente delle divinità, Maja, ha disteso il suo velo negandoci ogni possibilità di visione chiara e inequivocabile. E condannandoci per sempre soltanto a una approssimativa e miserevole interpretazione. E dunque è questa la mia vera risposta: in tutto quello che scrivo non c'è niente di vero, ma soltanto quello che a me sembra vero, in una confusione gioiosa di pure probabilità in cui tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo e tutto vive e tutto muore come nella scatola di Schrödinger. Ogni mia storia non è che il filo di un'Arianna perversa, che invece di condurre alla salvezza sprofonda sempre più nel labirinto. Ma niente paura: al fondo della discesa non è in agguato l'orrido Minotauro, ma solo l'inizio di una nuova storia.
Per cui l'eventuale lettore che fosse intrigato, oltre che dal problema della realtà, anche dal paradosso di Schrödinger, può senz'altro tranquillizzarsi: la realtà non esiste, e il gatto è morto.
mercoledì 25 novembre 2015
venerdì 9 ottobre 2015
L'enigma di Narciso
Gli scrittori eleggono a propria protettrice la Musa, e a lei rivolgono preci e auspici.
Ma in realtà è a se stessi che pensano quando rivolgono gli occhi al cielo: e quell'azzurro che immaginano è solo il riflesso dello specchio in cui si confondono.
Perché ogni scrittore non è che un novello Narciso, che dovrebbe ritrarre gli altri e finisce per ritrarre sempre se stesso, scambiando per un'immagine vera quella che è solo il fantasma del suo io. Portando così alla luce e a compimento l'insanabile contraddizione della scrittura, generosa invenzione di Toth nata per comunicare e che invece, dopo aver distrutto Memoria, è divenuta oggi il massimo canale dell'incomunicabilità.
Allo specchio d'acque degli antichi si è sostituito il pulviscolo elettronico della Rete: ma il naufragio nei gorghi è lo stesso, e analogo il silenzio che si richiude sulla discesa al fondo del povero Narciso.
Ma in realtà è a se stessi che pensano quando rivolgono gli occhi al cielo: e quell'azzurro che immaginano è solo il riflesso dello specchio in cui si confondono.
Perché ogni scrittore non è che un novello Narciso, che dovrebbe ritrarre gli altri e finisce per ritrarre sempre se stesso, scambiando per un'immagine vera quella che è solo il fantasma del suo io. Portando così alla luce e a compimento l'insanabile contraddizione della scrittura, generosa invenzione di Toth nata per comunicare e che invece, dopo aver distrutto Memoria, è divenuta oggi il massimo canale dell'incomunicabilità.
Allo specchio d'acque degli antichi si è sostituito il pulviscolo elettronico della Rete: ma il naufragio nei gorghi è lo stesso, e analogo il silenzio che si richiude sulla discesa al fondo del povero Narciso.
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Il mestiere di scrivere
domenica 27 settembre 2015
Galileo Galilei
E' in arrivi un nuovo romanzo, per la gioia di grandi e piccini! Un breve résumé:
Costantinopoli, inverno del 1605.
Due uomini si guardano negli occhi, prima di salutarsi con un inchino. Il patto è sugellato.
Padova, estate del 1605.
È la donna più bella e conturbante che abbia mai visto. E la più enigmatica. Come il misterioso congegno di cui è in possesso, giunto dalle Indie occidentali: l’Occhio di Dio. Usato un tempo dagli imperatori Inca per scoprire i traditori nascosti tra i cortigiani, perché in grado d’individuare anche in mezzo a una folla chi porti un’arma sotto le vesti. Per Galileo Galilei il segreto del suo funzionamento, e la donna che lo custodisce, diventeranno un’ossessione.
Palmanova, autunno del 1605.
Ne ha sentito magnificare la perfezione geometrica, gli è stata descritta fin nei minimi dettagli, ma nessun disegno o elogio avrebbe potuto preparare Galileo Galilei all’ingresso a Palmanova. Autore di due trattati di architettura militare, Galileo è stato ben lieto di raggiungere il suo amico Sagredo per collaborare alla fortificazione dei bastioni di quella rivoluzionaria città, eretta in difesa del confine orientale della Serenissima. Ma la sua mente è ancora concentrata su quell’oscuro rompicapo, l’Occhio di Dio. Certo che il suo funzionamento si fondi su un fenomeno di natura magnetica, lo scienziato è convinto altresì che possa essere usato per rilevare la presenza di masse metalliche anche a grande distanza. E vorrebbe dunque replicarlo su scala maggiore, immaginando quale incredibile strumento per la guerra sui mari potrebbe divenire. Forse addirittura l’arma decisiva contro i turchi. Ma quella che per lui è ancora solo una speculazione teorica, per altri è questione di vita o di morte: ogni mossa di Galileo, infatti, è sorvegliata, e dai personaggi più diversi. Perché a Palmanova, in modo apparentemente casuale, si sono dati convegno nobili veneziani e inviati dell’impero ottomano, avventurieri e misteriose figure che si muovono nell’ombra. Tra cui la donna che, per prima, ha lasciato intravedere a Galileo le meraviglie dell’Occhio di Dio…
Costantinopoli, inverno del 1605.
Due uomini si guardano negli occhi, prima di salutarsi con un inchino. Il patto è sugellato.
Padova, estate del 1605.
È la donna più bella e conturbante che abbia mai visto. E la più enigmatica. Come il misterioso congegno di cui è in possesso, giunto dalle Indie occidentali: l’Occhio di Dio. Usato un tempo dagli imperatori Inca per scoprire i traditori nascosti tra i cortigiani, perché in grado d’individuare anche in mezzo a una folla chi porti un’arma sotto le vesti. Per Galileo Galilei il segreto del suo funzionamento, e la donna che lo custodisce, diventeranno un’ossessione.
Palmanova, autunno del 1605.
Ne ha sentito magnificare la perfezione geometrica, gli è stata descritta fin nei minimi dettagli, ma nessun disegno o elogio avrebbe potuto preparare Galileo Galilei all’ingresso a Palmanova. Autore di due trattati di architettura militare, Galileo è stato ben lieto di raggiungere il suo amico Sagredo per collaborare alla fortificazione dei bastioni di quella rivoluzionaria città, eretta in difesa del confine orientale della Serenissima. Ma la sua mente è ancora concentrata su quell’oscuro rompicapo, l’Occhio di Dio. Certo che il suo funzionamento si fondi su un fenomeno di natura magnetica, lo scienziato è convinto altresì che possa essere usato per rilevare la presenza di masse metalliche anche a grande distanza. E vorrebbe dunque replicarlo su scala maggiore, immaginando quale incredibile strumento per la guerra sui mari potrebbe divenire. Forse addirittura l’arma decisiva contro i turchi. Ma quella che per lui è ancora solo una speculazione teorica, per altri è questione di vita o di morte: ogni mossa di Galileo, infatti, è sorvegliata, e dai personaggi più diversi. Perché a Palmanova, in modo apparentemente casuale, si sono dati convegno nobili veneziani e inviati dell’impero ottomano, avventurieri e misteriose figure che si muovono nell’ombra. Tra cui la donna che, per prima, ha lasciato intravedere a Galileo le meraviglie dell’Occhio di Dio…
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Novità in arrivo
giovedì 6 agosto 2015
Generatore automatico di trame.
Da decenni nel mondo della narrazione corre una diceria, che finora nessuno è riuscito a provare come vera, o a derubricare una volta per tutte al ruolo di leggenda.
Parlo della misteriosa invenzione di Edgar Wallace, la sua Plot spinning wheel. Un artificio meccanico, costituito da una io più ruote girevoli su cui erano elencate un gran numero di situazioni possibili e di snodi narrativi. Combinando i quali in modo puramente casuale, il risultato consentiva di superare tutte quelle tragiche impasse creative che ben conosce chi si avventuri sull'aspro camino dell'invenzione di storie.
leggenda, probabilmente. Mentre appare più certo un analogo dispositivo creato da Erle Stanley Gardner, l'autore di Perry Mason. Si cui sono stati ritrovati gli appunti costruttivi. Mai lasciarsi prendere quindi dalla sconforto, scrittori in crisi. Anche per noi c'è una Ruota della Fortuna pronta ad aiutarci.
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Il mestiere di scrivere
lunedì 13 luglio 2015
Svagato è l'eroe
La comparsa di un singolo essere nel nostro freddo universo è un’eventualità talmente improbabile che il suo solo verificarsi dovrebbe attribuire a questa condizione il crisma dell’intangibilità assoluta.
Nessuno ucciderebbe mai, se solo si soffermasse per un attimo sull’enormità dell’atto. Ma poiché questo invece avviene, ne deriva che l’omicidio è il più svagato dei delitti.
Nessuno ucciderebbe mai, se solo si soffermasse per un attimo sull’enormità dell’atto. Ma poiché questo invece avviene, ne deriva che l’omicidio è il più svagato dei delitti.
martedì 2 giugno 2015
Crimini e illusioni.
A pochi giorni dallo scoppio della grande Guerra, circondato dai velluti del suo scompartimento riservato nel treno che lo sta conducendo da Mainz a Coblenza, il sulfureo Malager esegue il suo ultimo trucco. E scompare nel nulla, lasciando che solo una carrozza vuota approdi sferragliando in stazione. Un nulla però foriero di morte, visto quello che ne seguirà dopo qualche tempo sulle vicine sponde del fiume Reno.
Passano pochi anni, la Guerra sta svanendo all’orizzonte in un tumulto wagneriano di strepiti e di orrore. È il 1918, e l’altrettanto grande Chung Ling Soo, celebre mago venuto di China, si sta apprestando a sbalordire i suoi affezionati spettatori con il suo numero più incredibile: afferrare con i denti una pallottola sparatagli a breve distanza da un tiratore scelto. Ma questa volta la morte è più svelta di lui. Tanto da suscitare sospetti, e infatti si dice che la sua bellissima moglie yankee ne sappia qualcosa. Forse si è stufata delle mollezze orientali, in combutta con il malfido agente teatrale del marito.
Poi viene il 1922, e il più famoso mago di tutti i tempi, Harry Houdini, fa appena in tempo a liberarsi dai legacci di una camicia di forza per essere trascinato a indagare nei vicoli di una New York che non è ancora una Grande Mela, ma già nasconde nei sui angiporti un emulo intellettualizzato di Jack the Ripper. Una sinistra figura che ha deciso di replicare nella carne e nel sangue alcuni dei più singolari racconti di Poe, scrittore già incline di suo all’orrendo, e scomparso per di più in circostanze ambigue e discutibili.
Tre individui notevoli, dunque. E tutti e tre coinvolti in storie di foschi delitti. Tre grandi mistificatori: Houdini aureolato di una corona di dicerie ai limiti del metafisico, al punto che lo si crede in possesso di poteri straordinari come quello di smaterializzarsi. Voci così tonanti da intontire anche il gentiluomo di passaggio Arthur Conan Doyle, che insisterà sulla cosa fino alla fine dei suoi giorni. Chung non è cinese come si spaccia, ma è un tarchiato americano di nome Robinson, che soltanto grazie al cerone e ai cerotti sulla fronte sembra più cinese di un cinese. Infatti a un certo momento smette di struccarsi alla fine degli spettacoli e vive come un coolie arricchito, tra tappeti e lampade offuscate, circondato da una servitù autenticamente orientale, protetto da una guardia personale di Boxers che gli fanno schermo davanti ai giornalisti troppo invadenti mulinando i loro spadoni.
Malager è forse il più strano di tutti. Ha fatto fortuna trafficando in diamanti nel Kimberlay, è ricchissimo e si esibisce per puro piacere di terrorizzare il suo pubblico. Si dice che il suo numero più celebre consista nello staccarsi la testa e lanciarla verso la platea accompagnata da un urlo disumano. Alla sua spaventosa essenza di babau per le notti insonni manca soltanto un tassello: come la montagna d’oro e l’unicorno, di cui parlano da secoli logici e teologi, egli non esiste. È solo un fantasma letterario, inventato da quell’altro mago di John Dickson Carr per animare le pagine di Castle Skull, nel ‘31.
Uno vero, uno travestito, uno inventato. E tutti e tre diventano personaggi di storie, insieme a molti altri loro colleghi che sarebbe lungo nominare. Perché i maghi, da quando è stato inventato il racconto criminale, vengono bene nel ruolo dell’investigatore. E dell’assassino.
Sì, c’è qualcosa che lega indissolubilmente la magia e il delitto. Parlo naturalmente del delitto elegante, giallo, che intercorre tra persone per bene tra una conversazione sul tempo e un leggero diverbio sulla reincarnazione. Quel delitto che secondo De Quincey richiede progetto, gentiluomini, socialità, luce e ombra, poesia e sentimento. Quanto di più lontano dal crimine bestiale del noir, che sempre quel melanconico Inglese riassumeva nel tristo trittico di coltello, portafogli e vicolo oscuro.
No, signori. Qui si pensa, prima di metter mano all’acciaio. E dove si pensa si inganna. Ed è immediata nella nostra coscienza l’identificazione dell’inganno con le azioni dell’illusionista. Chi meglio infatti di qualcuno che ha fatto dell’inganno delle menti e dei sensi la sua professione potrebbe muoversi più agevolmente tra le insidie del delitto?
Ponete mente ad un gioco di prestigio, se mai avete avuto la fortuna di assistervi. Esso, come il crimine, percuote l’animo nel profondo, sgretolando tutto quel sistema di convinzioni su cui basiamo la nostra vita quotidiana. Per qualche istante ci regala il supremo piacere di poter credere che le ferree leggi della natura, con tutte insieme congiurano al nostro progressivo abbattimento verso la terra e la morte, possano essere sospese e vinte.
Sul palco un uomo abbigliato in fogge ammiccanti vi mostra una cabina decorata da colori accesi, che segnano sulle sue fiancate esotici richiami a esotici paesaggi. L’apre, ne ostenta con chiarezza la vacuità dell’interno, la solidità della fattura, il suo essere insomma né più né meno che una scatola di legno. Poi, dopo essersi accertato che il pubblico si sia convinto di quanto va sostenendo con una gesticolazione accentuata, vi fa entrare la sua assistente e richiude lo sportello.
La cabina è isolata nello spazio, sospesa in genere su perni rotanti che le consentono di piroettare su se stessa, allo scopo di disingannare chiunque immagini l’esistenza di nascoste adduzioni da retro o dal basso. Eppure la ragazza scompare, lasciando al posto della sua graziosa presenza corporea un nulla sconcertante. O, in alternativa, appare al suo posto un nano, un mazzo di fiori, un suonatore di sassofono. Insomma qualunque cosa, ma inesplicabile.
La facciamo più difficile? Siamo nei roaring twenties e Houdini, sì quello stesso che nel romanzo Nevermore di William Hjortsberg si affannava sulle tracce dell’assassino emulo di Poe, ne tira fuori un’altra delle sue. Fa erigere sul palcoscenico un muro di mattoni e lo attraversa disinvolto. Per chi immagina chissà cosa chiarisco subito: il muro sorge su una lastra di vetro, ed è fatto di mattoni veri e belli tosti. Niente trucchi banali: Houdini sembra proprio attraversarlo, e lo fa per di più sotto gli occhi di centinaia di spettatori che vedono tutto, e non si accorgono di nulla. Passa poco, e nel 1930 il fatuo duca di Saligny, schermidore e bon vivant, viene decapitato in una saletta riservata del ristorante Fenelli, allora locale alla moda in quella Parigi di sogno che John Dickson Carr ci dipinge in It walks by night. Be’, non ci crederete ma nella stanza del delitto si può entrare soltanto da una porta, sorvegliatissima dalla forza pubblica per via di certe sinistre minacce ricevute dal titolato. E il bello è che tra i sorveglianti-testimoni c’è nientemeno che il grande Henri Bencolin, Juge d’istruction, Consigliere di Corte Suprema e capo della polizia parigina, insomma l’ultimo che ci aspetteremmo lì a farsi fregare da un tenebroso assassino che entra ed esce sotto i suoi occhi senza che nessuno lo veda.
Poi viene il 7 agosto del 1990, e nel quartiere Prati di Roma una ragazza viene assassinata all’interno di un appartamento chiuso, in un condominio abitato da decine di persone. Qui non siamo in una favola, c’è poco da scherzare: il sangue e lo strazio sono veri, in via Poma si è consumato uno dei più misteriosi delitti degli ultimi anni. Anche lì un assassino è entrato e uscito sotto gli occhi di tutti, visto da nessuno. E anche qui, seppure declinato in forme più drammatiche, siamo ancora davanti a un gioco di illusioni. Certo in via Poma non ci sono specchi o passaggi segreti, ma non viene da pensare che il mago che oltrepassa un muro, e l’assassino che invisibile scende e risale la scala di un palazzo abbiano qualcosa in comune? Che l’uno non sia che l’altra faccia contorta in un ghigno della medesima medaglia?
Certo che lo pensiamo, è ovvio. Che insomma ci sia qualcosa di malsano in questo fatto di imbambolare la gente, farsene beffe per strappare un applauso. Che è poi una sensazione universale, che spiega bene il perché i maghi siano sempre circondati da un’aureola ambigua, di ammirazione e terrore al tempo stesso. Come ogni volta in presenza di un’epifania delle potenze superiori, da che mondo è mondo. C’è qualcosa che lega nell’intimo magia e delitto, qualcosa di sottile e non detto, ma inequivocabile. Sin dalla notte dei tempi, da quando Mosè trasforma il suo bastone in un serpente sotto gli occhi di Faraone. E quello lì a bocca aperta, e così tutto il collegio sacerdotale di Iside, Osiride o chissà chi.
A bocca aperta, ma mica tanto contento di quello che vede, e infatti di lì a poco li caccia via tutti, il mago e il suo popolo, a scanso di equivoci.
E gli stessi maghi se ne accorgono, tanto da sentirsi costretti loro per primi a gigionare, a rassicurare che alla fine è soltanto un gioco, che non c’è da temere per la salute. Pensate al povero Mandrake, che parte nel ’34 come uomo del mistero, algida reincarnazione di Faust e di Mephistofele insieme, e solo pochi anni dopo è già costretto a dissiparsi in orrende festicciole di paffuti ragazzini, baloccandosi con fazzoletti e palline colorate come l’ultimo degli animatori di un villaggio vacanze. O al talentoso Houdini, che ha tanta paura di essere scambiato per un mago vero da scatenarsi in una guerra isterica contro veggenti e spiritisti, brava gente che in fondo non cerca altro che alleviare la nostra disperata finitezza con qualche ciarla con i defunti, aspettando l’ora del tè.
Pur di strapparsi quest’aria di parentela con gli assassini, lui che potrebbe tranquillamente vivere di rendita con apparizioni e sparizioni di carte, monete e ammennicoli vari, si autocostringe a rischiare la pelle ogni sera in imprese sempre più scervellate, quasi per far dimenticare le sue origini di incantatore da baraccone. Sprofondando in un vortice di rischiose insensatezze, sempre più addentro nelle fauci della morte. Insomma, aspira anche lui alla gloria del funambolo precipitato dalla corda, vuole per sé l’elogio e l’epitaffio di Zarathustra: «Tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere.» Vuole insomma che la gente lo ammiri come un vero eroe americano, che sollevi in alto i bambinetti al suo passaggio, perché lo vedano. Non che si metta la mano sul portafogli, a scopo di rassicurazione.
Il pericolo dunque, non l’astuzia criminale. Ma per quanto facciano gli onesti prestigiatori, purtroppo ci sono i giallisti, gentaccia che vive ai margini della letteratura vera, a ritirar fuori ogni volta la faccenda, con l’ostinazione di un branco di cani intorno all’osso. E sono davvero in molti ad accanirsi. Da Ellery Queen che in una delle sue short stories di ambientazione circense impicca una dolce trapezista, all’ineffabile Charlie Chan che, durante un’improvvida spedizione alla World Exposition di San Francisco, in Charlie Chan at Treasure Island, si confronta niente meno che con ben due artisti dell’incredibile: il raffinato e un po’ mandrakesco Radini e il torbido Zodiac. Salvo poi scoprire, nella migliore delle agnizioni di ogni buon feuilleton degno di rispetto che si tratta del medesimo lestofante. E tutto ciò ben nove anni dopo che il manesco Sam Spade, nella stessa città, ha dato il via a un genere in cui certe raffinatezze sono state piallate via senza ritegno, allo scopo di strappare il crimine dai palcoscenici e rimetterlo in mezzo alle strade.
Sarà pure vero che per essere moderni bisogna essere hard boiled, ma certo uno come Hake Talbot se ne fa un baffo di quegli sdruciti continental op, alla continua ricerca di tirar su qualche dollaro rovistando nella biancheria sporca dei loro clienti. Anzi, in pieni anni Quaranta riporta baracca e burattini più o meno nella stessa isola dove già erano defunti gli indianetti della Christie. Siamo in The Hangman's Handyman: c’è il paranormale, c’è la magia, e di quella buona. Anzi Talbot, che era un prestigiatore professionista, in spregio ad ogni più elementare deontologia professionale, si permette anche di spiegare tra un capitolo e l’altro qualche trucco, così per ammazzare il tempo.
Forse sarà per questo che la maledizione dei colleghi lo raggiunge, seccandogli la penna. Infatti ne scrive solo un altro, Rim of the Pit, che però raggiunge i vertici dell’arte, con tanto di camera chiusa, sparizioni, una sinistra veggente e un mago in incognito che la perseguita, atmosfera sognate e sinistre premonizioni.
Segno che in questo antico binomio, magia e delitto c’è davvero qualcosa di persistente, che continua a colpire la fantasia di lettori e scrittori. Dicevo prima dello sfortunato Chung Ling Soo, e delle sue vicissitudini con le pallottole vaganti. Lui già diventa un personaggio nel 1955, in The riddle of Chung Ling Soo di William Dexter: ma ancora nel 1989 se ne ricorda Daniel Stashower, che appunto intorno ad una delittuosa occorrenza dello stesso trucco costruisce il suo Elephants in the distance. E non contento richiama ancora dalle nebbie del Grande Ignoto lo stesso Houdini, dramatis persona in una serie che conta già altri tre intriganti romanzi. Quello stesso Houdini, maestro di evasioni, esortato ancora per ben dieci anni a sfuggire niente meno che ai vincoli della morte: tante sono infatti le notti di Halloween in cui i migliori illusionisti d’America si riuniscono in catena al Knickerbocker Hotel di Los Angeles, dopo quella ferale del 1926, cercando di aprirgli le porte del ritorno e lui niente, ostinato. Anche se tutti sanno che è solo un’impuntatura, perché se appena volesse salterebbe fuori dalla sua bara di bronzo vispo come un grillo, alla faccia di chi gli vuol male.
Ma anche la coppia Boileau e Narcejac ci prova a zappare questo Campo dei Miracoli e a sotterrarci i suoi zecchini. E in Les Magiciens del 1957 architetta una trama delittuosa intorno a uno dei più celebri numeri magici di ogni tempo: la trasposizione dei corpi nello spazio, un effetto tanto fascinoso da intrigare anche Gene Roddenberry, lo sceneggiatore di Star Trek, che con il suo teletrasporto riconduce la magia a ordinario trantran cosmico, depurando il marchingegno di tutte quelle orrende implicazioni cui invece assiste impotente il sinistro Vincent Price ne The Fly, spaventevole technicolor del 1958. e che poi ritroviamo bel bello di nuovo al centro di angosciosi eventi nel recentissimo The Prestige.
E che la storia funzioni lo conferma anche il successo di Paul Halter, un alsaziano che sembra uscito fresco fresco dalla macchina del tempo, tanto i suoi romanzi ricreano affettuosamente l’atmosfera degli anni Trenta. Se volete un bel delitto in stile leggetevi La quatrième porte o Le brouillard rouge, e ritroverete quei magnifici illusionisti in marsina che salgono e scendono da un liner oceanico, quando non da un treno di lusso come il finto Malager. Gente sì dotata di abilità straordinarie e ai limiti dell’impossibile, non come quei poveretti di oggi, che osano presentarsi in t-shirt e jeans come un suonatore ambulante da metropolitana. Oppure, se volete riempirvi gli occhi con un torrente di fatti e personaggi meravigliosi, sapere di freaks e di sideshow, scoprire cosa si celava dietro le tende dei Carnivales, non fatevi sfuggire Carter beats the devil, di Glen David Gold. Magari un po’ kingish, come dicono gli americani quando vai verso le mille pagine, in omaggio al grande Stephen. Noi al liceo dicevamo mattonata, con quella crudele superficialità dei giovani, ma se avete tempo…
E se non ne avete, se siete schiavi anche voi di quella terribile furia della vita moderna che tutti ci consuma, e ch’è un correre alla morte, come diceva il padre Dante, allora c’è un solo libro che non dovete assolutamente perdervi, certo l’esempio più paradigmatico di tutto questo ragionare: Death from a top hat, di Clayton Rawson, del ‘38. Forse il più bel romanzo in senso assoluto che affronti la materia. Un’epitome che andrebbe studiata in tutte le scuole di scrittura di genere. Stilato da uno che tra l’altro era appunto di suo un illusionista, e di un certo prestigio. Uomo faceto, direttore per lunghi anni della rivista di Ellery Queen, grande editor, che meriterebbe più grande fama.
E invece non è uno da lista dei best sellers, di quelli che gli editori coccolano nel catalogo e ristampano a ogni piè sospinto. In verità il Nostro non è stato mai troppo fortunato nel mondo editoriale, tuttora non è facilissimo reperire le sue non molte opere, anche in America. Per non parlare dei singoli romanzi, pure il Complete Merlini, l’antologia di tutte le storie brevi con protagonista il grande Merlini, il suo eroe, è tuttora esaurita e in attesa di ristampa. Se a qualcuno venisse voglia di procurarsela dopo aver letto queste righe, si prepari a metter mano almeno a un bel centone, e a esplorazioni molto pazienti su eBay. Qui da noi meritevolmente è uscito nel Giallo Mondadori, ma tempo fa: per cui via ancora con le bancarelle.
Certo, Rawson non Carr, non è Quentin. Non è nemmeno la Christie, e non parliamo poi di Hammett o Chandler. I suoi personaggi sono sbozzati via veloci, i suoi poliziotti sono più macchiette da two-reels movies che reali investigatori. Se siete innamorati dell’87° Distretto è meglio che lasciate perdere, qui siamo con Philo Vance e le sue stampe cinesi. Le metropoli sono spesso dei fondali di cartapesta, con dei cattivi improbabili e dei buoni zuccherosi. Sono le città americane come le reinventava Hollywood nelle sophisticated comedies, piene di belle donne impellicciate e gentiluomini in cilindro: per intenderci, pensate a quello che diventa la coppia di Thin man di Hammett affidata a Dick Powell e Myrna Loy. Per non parlare poi delle fanciulle, al cui confronto la Narda di Mandrake corre il rischio di sembrare un’eroina scespiriana.
E quando nelle sue storie, come in The Headless Lady, fa capolino la provincia, non è certo quella polverosa e devastata di Faulkner, e nemmeno quella alcolizzata e violenta di James Caine. Semmai è quella sognante e pacificata che poi ritroveremo in un certo Bradbury. E poi, ahimè, nelle storie di Rawson non c’è quasi il sesso, se non per caste allusioni: il mago Merlini ha una moglie, sfuggente matrona come quella del tenente Colombo, Ross Harte, l’Archie Goodwin della sua coppia di investigatori dilettanti, ha delle sottintese amichette, o al più una fidanzata. Appunto, amichette, fidanzatine, tutto nel rispetto del più puro codice Hayes del three seconds kiss.
E non è un caso che il giovane Harte, la voce narrante delle sue storie, sia nella finzione sì uno scrittore, ma uno scrittore di slogan pubblicitari, un copywriter. Dunque non un letterato, mondo per cui anzi Clayton da buon americano spicciativo nutre una certa diffidenza. Nelle sue trame i professori sono sempre un po’ lunatici, gli esperti ambigui e propensi al male. Anche i suoi poliziotti sono dei praticoni, facili anche a una certa violenza da questurini più che alla ancora da venire indagine scientifica.
Ma dicevo di Death from a top hat, il suo primo e miglior romanzo. Qui assistiamo a una vera propria apoteosi dell’illusione come metafora del delitto. L’assassino è un illusionista, l’investigatore è un’illusionista, i sospetti sono illusionisti. Anche una delle vittime è un’illusionista, mentre una seconda è un mago vero, di quelli metafisici. Ora ogni nazione ha la sua tradizione magica: se fossimo in Europa probabilmente sarebbero Faust e i suoi patti a fare capolino. Demoni gotici, come i grilli delle cattedrali. Ma con Rawson siamo in America, e lì la magia significa l’umido suolo caraibico, il woodoo, un pizzico di Santeria. Terre magiche in cui gli zombies barcollano sulle tracce di velate bellezze bianche.
Rawson non è un etnologo, per cui impasta su demoni assiri e Baron Samedì con quella aerea disinvoltura degli americani che spesso fa storcere la bocca ai nostri accademici. Qui, nell’esoterico, va un po’ sul vago: invece abbonda quanto a precisione per quanto riguarda lo sfondo concreto, metropolitano, della storia. A cominciare dalla base operativa, di Merlini, il suo negozio di articoli per maghi, che è un calco sputato di quello di Martinka, il più antico e più importante fornitore di attrezzi magici per illusionisti a New York: il luogo segretissimo dove nacque l’American Society of Magicians, dove il giovanissimo Dai Vernon (lui sì bello e con i baffetti giusti) una notte riuscì a ingannare il grande Houdini, diventando una leggenda.
Merlini pure ha il suo negozio, con tanto di retrobottega attrezzato a teatrino per le prove, proprio come da Martinka, ha il suo coniglio personale che scorrazza tra i banchi pieni di Miracles for sale, come dice l’insegna fuori dalla porta a vetri smerigliati (il negozio di Merlini non è infatti all’europea, sulla strada, ma è proprio come li vediamo nei film noir, in fondo a un lungo corridoio in uno di quei palazzi per uffici newyorkesi dove gli investigatori coabitano con le agenzie matrimoniali, i banchi di pegno, i trafficanti di giade rarissime…).
Bene, la storia comincia manco a dirlo con un assassinio: è morto un certo Sabbat, nomen omen, misterioso e ambiguo studioso di culti segreti e di strani rituali, ed è morto guarda caso strangolato al centro di un pentacolo, a braccia e gambe divaricate (ah, ombra di Leonardo! Quanti danni ha fatto il tuo ometto a braccia aperte, da Vitruvio a Dan Brown!) e poiché sembra sia stato trascinato alle ombre da un demone, tale Surgat che apre le porte, è per l’appunto trapassato all’interno di una bella stanza chiusa dall’interno. Perché si sa che i demoni non abbisognano di pertugi per eclissarsi dopo il misfatto.
Prima di tirare le cuoia però Sabbat aveva dato appuntamento a un certo numero di personaggi singolari: una medium, un esperto di esoterismo, un illusionista in frac, un emulo delle fughe di Hudini, una coppia di lettori del pensiero. Sei personaggi, ciascuno con un ottimo motivo per eliminare lo stregone, come si vedrà nel prosieguo.
Costruito il suo teatrino Clayton, mentre ci porta avanti per mano nello sviluppo della trama intricata, ne approfitta per fornirci nello stesso tempo uno straordinario sunto della magia da palcoscenico della sua epoca, con continue strizzate d’occhio ai suoi lettori e amici. Prendiamo la medium, madame Rappourt: chiunque in quegli anni avrebbe subito riconosciuto l’allusione alla famosa Margery, la medium con cui Houdini ingaggiò negli anni Venti uno scontro epico, senza esclusione di colpi. E poi il nome! Nel 1937 Ted Annemann, uno dei geni della magia mentale, aveva realizzato il celebre En rapport, il numero di telepatia che è ancora alla base di tanti exploits del genere in teatri e night club: lo stesso Annemann che poi nel ‘42 si ucciderà alla vigilia dell’esecuzione del suo trucco più pericoloso, afferrare una pallottola con i denti. Guarda caso, lo stesso che ha ammazzato Chun Ling Soo, come dicevo prima.
E la coppia dei telepati, i La Claire? Anche loro calchi di una celebre coppia del vaudeville di inizio secolo, gli Zancigs, con il loro misterioso codice, che tutti dicono di conoscere e che nessuno ha in realtà mai capito. E Dave Duvallo, l’esperto di serrature, lacci ed evasioni, che anche nel fisico ricorda il grande Houdini, e infine Tarot, il re delle carte, con il monocolo alla Cardini, il manipolatore geniale che nel ’34 era servito come modello fisico per Phil Davis quando inventa Mandrake.
E tutti costoro sgambettano a braccetto in una sarabanda da danza macabra del secolo XX, in un dedalo di false piste, doppi alibi, levitazioni dentro e fuori una finestra che avrebbero fatto invidia al famoso medium Daniel Home, sparizioni (bellissima quella da un taxi in corsa, con lo stesso metodo cui ricorrerà ancora David Copperfield ai tempi nostri). Insomma trucchi a valanga, cui tutti i sospettati, ciascuno per la sua specialità, ricorrono per depistare le indagini e scamparla. Finché il colpevole verrà alla fine individuato, manco a dirlo nel corso dell’ennesimo gioco d’illusione. Perché il romanzo finisce esattamente dove è cominciato, con un gioco di prestigio, realizzando in parole quella perfetta circolarità di forme cui ogni mago, come ogni spirito tolemaico che si rispetti, ambisce: qualsiasi cosa scomparsa deve riapparire, ogni ragazza segata a metà deve tornare intera.
Uno schema che l’autore ripeterà con varianti anche nei romanzi e racconti successivi. Clayton continua per diversi anni su questo doppio registro, mago di giorno e scrittore di notte. Addirittura negli anni quaranta raddoppia, si trova un nome de plume, Stuart Towne, e scrive altri racconti ancora con un mago come investigatore, Don Diavolo: questo però è diverso, ormai il mondo dei fumetti ha visto Superman e Batman, comincia a tirare l’eroe mascherato, ancora qualche anno e la Marvel ci alluvionerà di sconclusionati tardoadolescenti vestiti come drag queens. E infatti Don si esibisce con una mascherina alla Zorro e, in luogo della tutina, usa una versione frufru del tuxedo: rosso, stretto e corto in vita come talvolta anche Fred Astaire. Una variante dello smoking che da noi non ha mai avuto grande successo, forse per i nostri atavici mediterranei problemi di linea.
Siamo su una brutta china, fra poco arriverà il Dr Strange, che sembra uscito da un film di Ed Wood. Per fortuna che ci sono ancora gentiluomini di vecchio stampo come Jefferey Deaver, che nel 2003 ritorna in The Vanished Man ai buoni specchi e ai fumogeni dell’età d’oro. Un gioiellino che sembra scritto da un illusionista vero, tanto è precisa la ricostruzione di certi marchingegni dell’arte, qui piegati ancora una volta al delitto. Un po’ come accade al tenente Colombo, perché non crediate che la televisione si lasci sfuggire la cosa. Quando il nostro stralunato investigatore si trova a vedersela con i maghi, e succede in due celebri episodi, L’illusionista e Una ghigliottina per il tenente Colombo, ancora una volta la dimostrazione di come ammazzamento e illusione siano intrinsecamente connessi si fa evidente. Il grande Santini, fascinoso eroe eponimo del migliore dei due, e tra i meglio riusciti dell’intera serie, sciorina tutto il meglio del suo repertorio per spuntarla con quel testone del nostro tenente, compresa un’evasione dalla bara immersa nell’acqua che avrebbe avuto l’apprezzamento di Houdini. E anche Perry Mason, in una delle sue tardive e un po’ tristi apparizioni, se la vedrà più o meno con lo stesso trucco mortifero, in La bara di vetro del ‘91.
Insomma la vecchia urna non sembra ancora esausta, per fortuna. Anche la non troppo fortunata serie di The Magician, con Bill Bixby, è stata recentemente riproposta in Dvd, per chi volesse vedere un mago vero all’opera contro i gangster. Non che sia un granché, il taglio è per famiglie, sembra sempre che stia lì per spuntare da qualche angolo il Batman di Adam West in calzamaglia. Però c’è sempre da imparare qualcosa.
Ah, dimenticavo. Rovistando tra le bancarelle potreste pure trovare E trentuno con la morte, di tal G. Leoni. Dove viene ammazzata certa gente. E, manco a dirlo, anche lì con un gioco di prestigio.
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Il mestiere di scrivere
martedì 19 maggio 2015
Metafore ossessive
A suo tempo lessi con grande interesse il libro di Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Un testo molto ricco di elaborazioni ispirate al pensiero di Freud, analitico e rigoroso. Ma che al fondo trasmette un'idea semplice: l'opera letteraria scaturisce dal fondo limaccioso del nostro inconscio, e solo dopo passa al vaglio della coscienza che le conferisce una struttura linguistica e una forma definita.
ma che in questo passaggio trascina con sé delle tracce insopprimibili di quello che si nasconde nel profondo, e anzi vi si aggrappa come ancore di salvezza della propria identità.
Un'idea che tradotta in termini più grezzi significa: ogni scrittore non fa che riscrivere ossessivamente lo stesso libro per tutta la vita, spesso senza che lui stesso i suoi lettori ne abbiano consapevolezza.
Ci deve essere del vero, se in fondo Dostoevskij non fa che rielaborare l'assurdità del male che colpisce gli innocenti, Tolstoj il conflitto tra il potere e il ruolo sociale e i sentimenti, Mann la relazione vertiginosa tra la malattia e l'arte, Nietzsche la sfida destinata alla sconfitta dell'uomo con Dio, in una eterna e circolare ripetizione della lotta di Giacobbe con l'angelo, tanto per citare qualche esempio.
E anche se non fosse vero non ha alcuna importanza. E' appunto una bellissima metafora, anche un po' ossessiva.
ma che in questo passaggio trascina con sé delle tracce insopprimibili di quello che si nasconde nel profondo, e anzi vi si aggrappa come ancore di salvezza della propria identità.
Un'idea che tradotta in termini più grezzi significa: ogni scrittore non fa che riscrivere ossessivamente lo stesso libro per tutta la vita, spesso senza che lui stesso i suoi lettori ne abbiano consapevolezza.
Ci deve essere del vero, se in fondo Dostoevskij non fa che rielaborare l'assurdità del male che colpisce gli innocenti, Tolstoj il conflitto tra il potere e il ruolo sociale e i sentimenti, Mann la relazione vertiginosa tra la malattia e l'arte, Nietzsche la sfida destinata alla sconfitta dell'uomo con Dio, in una eterna e circolare ripetizione della lotta di Giacobbe con l'angelo, tanto per citare qualche esempio.
E anche se non fosse vero non ha alcuna importanza. E' appunto una bellissima metafora, anche un po' ossessiva.
sabato 16 maggio 2015
Nessuno avverta l'assassino!
Ho già toccato questo argomento, ma mi piace tornarci sopra perché si tratta di un tema centrale nella filosofia della composizione. Il problema della credibilità di ciò che si scrive, soprattutto in un'opera di narrativa congetturale.
In genere la giustificazione che si appone a certi arditi funambolismi è il richiamo all'antica formula di Coleridge, quella che chiama in causa la suspension of disbelief, una sorta di patto tacito che il lettore stringe con il narratore ancora fuori della porta della libreria: so che quello che mi dirai non è vero, ma ti compro il libro egualmente proprio perché voglio essere trasportato in un sogno e accettarlo come vero è il prezzo che devo pagare -oltre a quello di copertina - per tale goduria.
la spiegazione è suggestiva, ma va inquadrata in una cornice necessariamente più ampia. Strettamente intesa essa non spiega perché i suoi effetti sono così differenti a seconda dei testi presi in esame, a prescindere dal loro maggiore o minore scarto dal senso comune a dall'esperienza empirica.
Perché insomma siamo disposti a sottoscrivere questo contratto con Aladino e la sua lampada, mentre proviamo molta più difficoltà a fare lo stesso con un romanzetto di scadente fattura, anche se magari molto più vicino alla realtà?
Perché a mio avviso l'accordo per funzionare deve coinvolgere non due ma tre attori: lo scrittore, il lettore e i personaggi della vicenda. In altre parole, perché scatti la magia della narrazione non basta la benevolenza del lettore nei confronti di chi scrive, ma occorre che essa si estenda anche allo spazio della narrazione e ai suoi attori. Occorre in altri termini che anche i personaggi sospendano la propria incredulità e si convincano di essere davvero quello che lo scrittore ha immaginato per loro. E che un mago creda fino in fondo di avere davvero poteri magici, una bella donna di essere davvero stupenda e irresistibile, un villain di essere il più terribile dei malvagi.
E dunque nessuno avverta l'assassino che non è affatto una terribile incarnazione del Male, ma soltanto una risibile crepa nella fronte marmorea dell'Essere, che appena qualche pagina dopo verrà scoperta e catturata.
Che nessuno lo avverta, per carità, se vogliamo che creda fino all'ultima riga nella sua missione, e lo faccia credere anche a noi.
In genere la giustificazione che si appone a certi arditi funambolismi è il richiamo all'antica formula di Coleridge, quella che chiama in causa la suspension of disbelief, una sorta di patto tacito che il lettore stringe con il narratore ancora fuori della porta della libreria: so che quello che mi dirai non è vero, ma ti compro il libro egualmente proprio perché voglio essere trasportato in un sogno e accettarlo come vero è il prezzo che devo pagare -oltre a quello di copertina - per tale goduria.
la spiegazione è suggestiva, ma va inquadrata in una cornice necessariamente più ampia. Strettamente intesa essa non spiega perché i suoi effetti sono così differenti a seconda dei testi presi in esame, a prescindere dal loro maggiore o minore scarto dal senso comune a dall'esperienza empirica.
Perché insomma siamo disposti a sottoscrivere questo contratto con Aladino e la sua lampada, mentre proviamo molta più difficoltà a fare lo stesso con un romanzetto di scadente fattura, anche se magari molto più vicino alla realtà?
Perché a mio avviso l'accordo per funzionare deve coinvolgere non due ma tre attori: lo scrittore, il lettore e i personaggi della vicenda. In altre parole, perché scatti la magia della narrazione non basta la benevolenza del lettore nei confronti di chi scrive, ma occorre che essa si estenda anche allo spazio della narrazione e ai suoi attori. Occorre in altri termini che anche i personaggi sospendano la propria incredulità e si convincano di essere davvero quello che lo scrittore ha immaginato per loro. E che un mago creda fino in fondo di avere davvero poteri magici, una bella donna di essere davvero stupenda e irresistibile, un villain di essere il più terribile dei malvagi.
E dunque nessuno avverta l'assassino che non è affatto una terribile incarnazione del Male, ma soltanto una risibile crepa nella fronte marmorea dell'Essere, che appena qualche pagina dopo verrà scoperta e catturata.
Che nessuno lo avverta, per carità, se vogliamo che creda fino all'ultima riga nella sua missione, e lo faccia credere anche a noi.
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Il mestiere di scrivere
domenica 8 marzo 2015
Filosofia della composizione.
Viene chiesto spesso al narratore, soprattutto di vicende storiche (siano esse gialle, nere o a mezza tinta) quanto di "vero" ci sia nelle sue storie, e quante e quali ricerche abbia effettuato per esser certo di quello che racconta.
Sono domande perfettamente legittime, ma anche ingenue: al narratore - se è tale e non un professorino frustrato o mancato - non importa assolutamente nulla della "verità" in senso fattuale. Tutti i suoi sforzi si concentrano nel tentativo di rappresentare non ciò che è vero, ma ciò che "sembra" vero al personaggio che in quella pagina interagisce con i "fatti".
Quando in Cabiria il prode Maciste irrompe nel tempio cartaginese per strappare l'infante all'orrendo destino, noi sappiamo benissimo che il tempio è di gesso, l'orrenda statua fumigante di Moloch null'altro che cartapesta, e i sacerdoti dal sinistro profilo semita dei figuranti rimediati nei quartieri popolari di Torino. E soprattutto, se siamo almeno orecchianti di storia vera, sappiamo pure che i cartaginesi erano meno barbari e che la statua del dio in quelle forme è soltanto un'invenzione di Borgnetto e Innocenti, gli scenografi del film.
L'importante però E' CHE NON LO SAPPIA MACISTE! E che soprattutto il personaggio si comporti sotto i nostri occhi come se davvero si trovasse di fronte a un terribile idolo cartaginese, perché è la sua reazione che rende "vera" nella nostra mente la scena cui assistiamo.
In quel momento, per noi, quella è Cartagine, più vera di quanto non sia mai stata e di quanto non possano rivelare mille studi e stratigrafie archeologiche. E guai a quella meschina guida turistica che cercasse di strapparcela con la scusa che così non è mai esistita.
Sono domande perfettamente legittime, ma anche ingenue: al narratore - se è tale e non un professorino frustrato o mancato - non importa assolutamente nulla della "verità" in senso fattuale. Tutti i suoi sforzi si concentrano nel tentativo di rappresentare non ciò che è vero, ma ciò che "sembra" vero al personaggio che in quella pagina interagisce con i "fatti".
Quando in Cabiria il prode Maciste irrompe nel tempio cartaginese per strappare l'infante all'orrendo destino, noi sappiamo benissimo che il tempio è di gesso, l'orrenda statua fumigante di Moloch null'altro che cartapesta, e i sacerdoti dal sinistro profilo semita dei figuranti rimediati nei quartieri popolari di Torino. E soprattutto, se siamo almeno orecchianti di storia vera, sappiamo pure che i cartaginesi erano meno barbari e che la statua del dio in quelle forme è soltanto un'invenzione di Borgnetto e Innocenti, gli scenografi del film.
L'importante però E' CHE NON LO SAPPIA MACISTE! E che soprattutto il personaggio si comporti sotto i nostri occhi come se davvero si trovasse di fronte a un terribile idolo cartaginese, perché è la sua reazione che rende "vera" nella nostra mente la scena cui assistiamo.
In quel momento, per noi, quella è Cartagine, più vera di quanto non sia mai stata e di quanto non possano rivelare mille studi e stratigrafie archeologiche. E guai a quella meschina guida turistica che cercasse di strapparcela con la scusa che così non è mai esistita.
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