sabato 26 giugno 2010

Il romanzo McDonald's




A prescindere dai gusti, il BigMac è comunque un capolavoro dell'industria dell'intrattenimento, prima ancora che di quella alimentare. E' infatti ampiamente provato da molte ricerche socio-culturali come la gran maggioranza dei suoi voraci consumatori non vi si getti sopra per soddisfare il sano istinto della fame: al contrario, la sua funzione più profonda e segreta è proprio quella opposta di stimolare l'appetito anziché placarlo, come ogni droga che si rispetti.

Ma come funziona? Trattandosi di un prodotto destinato programmaticamente a grandi masse indistinte di consumatori, privi di marker nazionali, la sua base è costituita da elementi largamente diffusi e conosciuti nel mondo: carne di manzo, pane di grano, verdure in uso in ogni continente. Questo per generare un clima di familiarità e di sapori attesi: il trucco consiste nell'aggiungervi degli "appetizer", degli esaltatori del sapore ottenuti con una miscela di sali, grassi e spezie che ne determinano il risultato finale. E la conseguenza è che ci si alza dal tavolo momentaneamente pacificati, ma indotti in realtà a tornarvi quanto prima per riprovare la stessa dolce gratificazione.

A ben guardare, non è che la letteratura di massa funzioni in modo troppo diverso. Anche qui compaiono sin dalle origini alcune caratteristiche similari: a differenza della scrittura “alta”, dove il testo si pone programmaticamente come un unicum finale relativo a un determinato complesso di domande esistenziali (quando Proust affronta il tema del rapporto con il passato, o Dostoevskij quello della colpa, o Mann il rapporto tra malattia e creazione estetica, lo fanno intenzionati a “concludere” la riflessione intorno a quei temi, non certo ad aprirla), nel caso della Trivialliteratur lo scopo dello scrittore non è invece quello di fornire al lettore un insieme di "risposte" intorno a un tema scelto, quanto semmai quello di suscitargli continue "domande", perché il ciclo scrittura-pubblicazione-lettura sia continuamente alimentato e potenzialmente inesauribile.

Proseguendo nella metafora, insomma, lo scrittore di massa non si pone assolutamente il problema di saziare il suo lettore, ma al contrario di “fidelizzarlo” al suo prodotto, ingenerandogli un desiderio ricorsivo degli stessi sapori.
E la formula è molto simile a quella messa a punto dai maghi californiani della polpetta. Nel caso della letteratura di massa (ossia rivolta a un lettore non specialistico e potenzialmente indifferenziato) alcuni degli appetizer sono ben noti e scoperti: l'uso di personaggi seriali, il ricorso a situazioni topiche ben note al lettore, l'aggancio a eventi cronachistici che abbiano colpito in epoca recente la sua immaginazione, il far leva sulle paure, sui desideri o semplicemente sulle mode del momento.
Altri, come gli ingredienti segreti del panino, sono più coperti e sfumati: uno per tutti la leva esercitata su alcuni condizionamenti ideologici diffusi nei presumibili utenti, come la vulgata ecologista, la paura della pervasività assoluta delle organizzazioni criminali, l’ineluttabile degenerazione di ogni Potere in Tirannide.

Comunque la si pensi, sono ormai più di due secoli che questo scontro tra fast food e haute cuisine va avanti senza esclusione di colpi, e non è detto chi la spunti, alla fine. Personalmente tirerei per Proust, ma se devo essere sincero, anche un bel paninazzo succulento…

1 commento:

Riccardo ha detto...

Sono un fanatico del McBacon, quindi sono poco obiettivo. È quello che è: un bel paninazzo saporito. Che certo non cambierà la storia della cucina, ma non ti delude mai. Al contrario di chi infila un ciuffo di prezzemolo in un gambero e te lo rifila per arte culinaria. Intendiamoci: l’alta cucina esiste, ma ci sono anche un sacco di fregature infiocchettate a dovere, spacciate per quello che non sono a un pubblico che cerca solo di darsi un tono. E che se un giorno si facesse un BigMac si rilasserebbe anche un po’.