sabato 4 giugno 2011
Generi
In questi giorni sono stato a Orvieto, gentilmente invitato dai curatori dell'edizione italiana di Weird Tales (sì proprio la mitica rivista di Lovecraft e Howard, riapparsa in veste molto più cool prima in America e adesso qui da noi).
Nella discussione si è finiti ancora una volta all'eterno tormentone: perché la narrativa di genere sia nonostante tutto ancora una sorta di parente povera della letteratura "alta". Discussione che si trascina almeno da cinquanta anni, accompagnando l'emergere via via al successo dei diversi generi.
Negli anni sessanta era il momento della sci-fi, poi sono stati il fumetto, quindi il giallo, ultimamente il noir e il fantasy a sgomitare fino ad affacciarsi sulla porta del salotto buono, varcare la soglia per poi fermarsi appena fatto un passo, come una madame Verdurin capitata per caso a palazzo Guermantes.
Probabilmente la risposta sta nella natura bifronte del genere, una sorta di vero e proprio Giano.
In altri termini, il genere è contemporaneamente il supremo architetto e l'occupante abusivo di quel solenne edificio che è l'immaginario collettivo dei popoli. Prima con squadra, compasso e filo a piombo (sì, ahimé proprio gli ammennicoli della Massoneria)ne getta le fondamenta e ne erige le vertiginose volte. Poi però spesso, invece di allontanarsene compiuta l'opera e volgersi in un dignitoso silenzio verso nuove avventure, vi si alloga dentro, lottizza gli spazi, dà in affitto pezzi di superficie, e insomma si sforza di spremere un qualche utile dal lavoro eseguito. Finendo spesso per trasformare una splendida cattedrale in una specie di Diurno Cobianchi della letteratura.
Bram Stoker foggia a martellate una forma, quella di Dracula, che diventa una categoria dello spirito: Twilight raccoglie semplicemente qualcosa dallo sciocchezzaio adolescenziale dei post-paninari americani e lo impasta su in una confezione iridescente. Val Lewton crea una serie di capolavori low-budget, dimostrando che quando c'è il cervello si può girare un film anche in cucina, Romero reinventa sì il vecchio zombie, ma poi si trasforma in un imitatore di se stesso.
Che sia davvero nel "passare oltre", come diceva il vecchio Nietzsche, il vero segreto della grandezza?
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2 commenti:
Non potrei esprimere meglio il mio stesso pensiero in merito.
Grande dilemma, anzi, oserei dire sacro dilemma, se non "il" dilemma.
Per quanto riguarda l'inventiva, la freschezza, la creatività, e - penetrando in un territorio davvero liminare e controverso - la "qualità", sono assolutamente d'accordo con te.
Tuttavia, senza tirare in ballo formalisti e strutturalisti, ma volando più bassi (o più alti, a seconda dei punti di vista), resta arduo comprendere e spiegare perché, al di là di tutto, ci sono degli archetipi (e uso il termine in senso lato e generalista), dei motivi, delle strutture dell'immaginario che, pur essendo ormai millenarie, basta che le si rinnovi un po' nella "facciata" o nell' "arredamento", ed esse continuano a piacerci e a coinvolgerci (e ne chiediamo ancora).
Passare oltre, sì, ma come? Ad assisterci in questi "passaggi" è un qualche Caronte, un Hermes psicopompo, un Mercurio o un semplice e astuto "venditore" o "mezzano" che ben sa come stuzzicarci attraverso una serrata e occulta dialettica tra "erfhahrung" ed "erlebnis"? Per cui ogni novità ci piace perché ci fa credere di fruire e godere di qualcosa di nuovo (di cui facciamo una sorta di piccola e fresca esperienza privata) pur conservando quel tanto di già noto che ci rassicura?
E al di là del "sensazionalismo" e dello stupore che di solito genera tutto ciò che appare nell'immediato come qualcosa di diverso, gradiamo davvero ciò che è concepito come radicalmente "nuovo"?
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