DANTE E PETRARCA.
L’Italia è sempre stata terra duale, di contrasti accesi tra due fronti. Senza scrupoli e senza esclusione di colpi sin dalle sue origini: a cominciare dal suo nome che non si è mai deciso se derivi da Aithalia la fiammeggiante per via dei vulcani, o invece da un mitico re Italo che l’avrebbe dominata un tempo.
Il conflitto da noi sembra accendere i cuori e le menti, sia esso lo scontro tra due squadre di calcio cittadine, una faida tra famiglie come i Montecchi e i Capuleti, Bartali e Coppi che si inseguono sulle balze montane, oppure una lotta sanguinosa come quella tra guelfi e ghibellini.
E questa continua avversione a due, a volte tragica a volte esilarante come un passo di danza, non ha risparmiato i rappresentanti delle belle arti. Anzi, dalle dispute tra Michelangelo e Leonardo a quelle tra Montale e Pasolini si può dire che è proprio su queste polemiche che si è andata costruendo la nostra grande tradizione culturale.
E quelle non esplicite, anzi coperte da un velo di soffice e impalpabile falsa ammirazione, sono forse quelle che più hanno segnato la nostra storia culturale. A cominciare dal conflitto di stile, di gusto e al fondo di personalità che caratterizzò l’inizio stesso della nostra letteratura, il dissidio tra Dante e Petrarca.
Un dissidio che si scopre facilmente nelle pieghe degli scritti e dei giudizi del secondo. Ma un dissidio a ben guardare singolare, verrebbe da dire quasi de relato, poiché i due, separati da una generazione e dalle vicissitudini dell’esilio, non ebbero probabilmente mai occasione di incontrarsi. Ma che se avessero potuto farlo di certo difficilmente avrebbero solidarizzato, troppo forti erano le differenze caratteriali, politiche, ideologiche e perfino religiose tra di loro.
Eppure a uno sguardo superficiale sembrerebbe legarli più di un punto: la passione poetica, per le parole per rima anzitutto. E poi la devozione per due donne, coltivata in entrambi lungo tutto l’arco della vita, Beatrice e Laura. Ma neppure questo avrebbe potuto avvicinarli, tanto erano diverse anche queste due figure femminili: spirituale e soffuse di luce divina la prima, tanto da lasciar dubitare più d’uno della sua reale esistenza. Vera e carnale la seconda, al punto da trasformarsi in una vera e propria icona visiva, celebrata nell’opera dei pittori e perfino nei poster pubblicitari.
Due grandi viaggiatori entrambi, ma l’uno, Petrarca, per passione e ansia di ricerca, quando non mosso da un’inquietudine già pre-esistenzialista che lo portò in Francia e Germania, oltre che in innumerevoli località dell’Italia settentrionale. L’altro mosso solo da necessità, che probabilmente mai avrebbe abbandonato la sua amata Firenze se non ne fosse stato bandito in esilio. E che anzi celebrò proprio nella sua massima opera la virtù dei tempi antichi, in cui l’arco della vita si esauriva nel cerchio delle mura cittadine e ciascuno era certo di poter riposare un giorno accanto ai propri morti.
Il conflitto si risolse con uno strano verdetto: Dante, l’inventore della nostra lingua, morì a soli 56 anni anche perché minato da una vita errabonda. Ed entrò ben presto in quell’oscurità che pure aveva tentato di esorcizzare con la sua opera. In sospetto alla Chiesa da sempre, con il suo trattato sulla Monarchia messo all’Indice e malvisto dagli umanisti per quella sua ostinazione a poetare in volgare, già un secolo dopo la morte cominciava a essere difficile poter disporre della Commedia. Opera che a partire da Seicento cessò praticamente di essere ristampata, tanto da consentire a Voltaire di sbeffeggiarla definendola elogiata solo perché nessuno la leggeva.
Un’eclissi da cui riemerse solo nell’Ottocento, ma trionfante e riscattato come padre della nostra poesia e uno dei massimi poeti di tutti i tempi, davvero quel “sesto” che aveva preconizzato per se stesso nella Commedia. Petrarca al contrario morì settantenne e nella pace del suo studio, poeta laureato e pubblicamente riconosciuto, al punto da dare il suo nome a un’intera corrente letteraria. Appunto il “petrarchismo” che attraverserà tutta la storia della lirica italiana, culminando nel Leopardi e con molti echi anche nella poesia novecentesca, come in Saba. Con la dolcezza dei suoi versi diluita e risonante in quella di centinaia e migliaia di suoi epigoni e imitatori, fino a diluirsi quasi irriconoscibile nei versi di tante canzonette d’amore e perfino nei biglietti nascosti nei cioccolatini.
Chissà se l’uno non avrebbe preferito il destino dell’altro, viene da chiedersi.
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