venerdì 15 luglio 2011

Ancora su Atlantide



L'amico Luca Crovi mi ha posto alcune domande su La porta di Atlantide per il suo blog. Riporto qui un paio delle risposte, che mi hanno dato occasione per alcune considerazioni e una rapida panoramica delle varie ipotesi sul continente perduto.

Perché secondo te il mito di Atlantide è ancora così vivo, tanto che ogni anno escono decine di studi sulla sua esistenza e soprattutto decine di romanzi?

Il mito di Atlantide è indubbiamente uno dei più suggestivi tra quelli moderni. Infatti anche se la storia è nota dai tempi di Platone, in realtà la sua fortuna si è consolidata solo nel corso degli ultimi cento anni o poco più: e questo grazie soprattutto all’opera di Donnelly e di madame Blavatsky, personaggi entrambi singolari e a loro modo davvero “atlantidei”.
E questo è davvero strano, se ci pensi: finché la vicenda, sulla base dell’enorme prestigio del filosofo greco, è stata ritenuta “storia vera” secondo le sue parole, non ha interessato più di tanto. Qualche scarno riferimento nei mitografi alessandrini, e poi il suo utilizzo soprattutto come pretesto nel Rinascimento per alcune utopie sociali o politiche, e nulla più. Invece, con l’esplodere della narrativa popolare, ecco che questa storia antichissima è tornata prepotentemente d’attualità, come se avesse atteso pazientemente l’arrivo dei pulp per riemergere dalle acque del tempo. Quasi fosse una sorta di “obbligato” con cui ogni narratore pop debba prima o poi confrontarsi, esattamente come nessun musicista può evitare prima o poi la forma sinfonica, né il più informale dei pittori di mettersi alla prova con il corpo umano.
Ma io credo che ci sia in realtà un motivo più profondo, che si accompagna non casualmente al sorgere dell’età della crisi, e ai primi segni di declino della civiltà europea. Proprio negli anni in cui esplode l’entusiasmo per Atlantide si mettono a punto i gas asfissianti e le prime armi si sterminio di massa, e nel cuore stesso del continente si mette in moto la macchina che genererà di lì a poco i suoi mostri più terribili.
È questo che ho cercato di raccontare ne La porta di Atlantide. Che non è assolutamente un racconto su Atlantide, ma intorno ad Atlantide. Non avevo alcuna intenzione di raccontare l’ennesimo ritrovamento: a onta della copertina un po’ fantasy, chi si aspettasse di trovare nel romanzo manoscritti misteriosi, templi perduti nelle giungle amerindie, audaci archeologi-esploratori, vulcani sul punto di esplodere e magari anche qualche dinosauro sopravvissuto è destinato a restare deluso. Niente di tutto questo: quello che mi interessava era raccontare come il mito ha lavorato e lavora tuttora nell’animo di noi contemporanei. Con esiti grotteschi, quando a innamorarsene sono buff creduloni come i membri della società di ricerche atlantidee, o tragici come nel caso di Vanja, che si aggrappa alla leggenda con la forza della disperazione di chi, essendo stata privata di tutto, cerca in un altrove assoluto il riscatto dall’inferno personale che si trascina dentro.


Puoi riassumere ai nostri ascoltatori quali sono le tesi più famose sul continente perduto?

Sprague de Camp, uno dei critici più attenti e acuti del fantastico, afferma che la bibliografia sull’isola perduta è talmente sterminata da essere seconda solo a quella della Bibbia. Non so se sia vero, ma è certo che prima di esaurire anche soltanto le teorie più diffuse si esaurirebbe la pazienza dei lettori. In estrema sintesi diciamo che si danno quattro grandi scuole di pensiero: studiosi che la collocano nel mare, altri che la situano sulla terra ferma, una terza schiera che la relega nel ghiaccio e infine coloro che la situano in una sorta di universo parallelo, separato da noi nel tempo e nello spazio. Insomma in quella regione ai confini della realtà che piaceva tanto a Rod Serling.
I primi si possono permettere un’ampia scelta, data la vastità della superficie equorea: per prima la dorsale Atlantica, ovviamente, da qualche parte intorno alle Azzorre. Questa gode i favori potrei dire dei puristi, di quelli insomma che non vogliono discostarsi in nulla dal dettato platonico. Golfo del Messico e isole caraibiche sono preferiti da temperamenti più inclini al sogno, come i seguaci di Edgar Cayce, mentre spiriti più sobri e razionalisti inclinano verso il bacino del Mediterraneo, tra Cartagine, la Sardegna e la Santorini di Marinatos. Cimbri e Teutoni preferiscono il Baltico, già meta delle loro vacanze, e i più arditi tra loro si spingono fin verso le Orcadi ed Helgoland, su fino alle isole Svalbard. Mentre amanti dei ristoranti etnici, animalisti e mondialisti in genere non disdegnano addirittura l’immenso Pacifico, ove impastano allegramente Maori e isola di Pasqua, Mu e barriere coralline in un improbabile fritto misto degno questo sì di un menù a prezzo fisso.
Quelli che voglio restare con i piedi per terra hanno a disposizione diverse alternative. Le foreste amazzoniche sulle orme del colonnello Fawcett, la pianura messicana con le sue città perdute di Cibola e le vette andine tra Machu Picchu e Tiahuanaco, le luminose caverne tibetane ove si sa che soggiornano i Signori del Mondo, ultimi eredi della razza scomparsa. Oppure le paludi della Florida, e poi l’Islanda e le coste norvegesi, e volendo anche la Nuova Inghilterra con tutte le sue premonizioni lovecraftiane. Tra le Atlantidi non a bagno ma sommerse semmai da liane o sabbie devo dire che i miei favori vanno senz’altro all’ipotesi sahariana di Frobenius, non fosse che per la versione che ne dà Benoit. Anche se un po’ invecchiata, con la sua allure polverosa di dromedari e legionari in chepì, continua secondo me a dividersi con la She di Rider Haggard la palma di miglior racconto sul tema di tutti i tempi.
Col ghiaccio non c’è molto da scegliere: o verso sud, nell’Antartide preistorica e di clima mite del nostro Barbiero, o verso nord, nella Urheimat boreale e ariana dei torvi nazisti. Certo un panorama vetrificato e cristallino, un biancore accecante di nevi eterne non si concilia troppo con la solarità equatoriale del racconto platonico, ma non bisogna essere troppo puntigliosi. Quanto invece alla quarta schiera, di quelli che la collocano nell’iperspazio, nell’inconscio collettivo, in immense bolle trasparenti ondeggianti qua e là o tra le schiere angeliche da cui attingere messaggi di luce e salvezza per via di comunicazioni ultrafaniche, be’, lasciamo perdere. C’è un limite a tutto.

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