In tutte le civiltà alberga la tradizione di una perduta, antichissima stagione in cui la terra era ospitale e fertile, gli animali fecondi, le stagioni clementi, gli uomini pacifici.
E' l'età dell'oro, diversamente collocata in valli meravigliose e segrete, o su alture montane inaccessibili. Una tradizione tanto radicata da riproporsi continuamente, specie quando i tempi accrescono l'inquietudine del vivere.
Tradizione tanto radicata e duffusa, da lasciar pensare che non si tratti solo di una leggenda, ma che al suo fondo si nasconda un nucleo di verità.
Il primo a porsi il problema in termini moderni fu Jean Sylvain Bailly, astronomo ma soprattutto grande studioso delle conoscenze astronomiche dei popoli antichi.
Egli partì da due semplici domande. Perché la Terra è l'unico pianeta del sistema solare il cui asse di rotazione sia inclinato sul piano dell'eclittica? E perché i babilonesi divisero il cerchio in trecentosessanta gradi?
La prima domanda non sembra avere una spiegazione: se i pianeti si sono formati per aggregazione delle polveri orbitanti intorno al sole, le leggi della gravitazione dovrebbero far sì che queste masse ruotino su un asse perpendicolare al piano della loro orbita intorno alla stella, come ogni buon giroscopio o trottola che si rispetti. Il che avviene appunto per tutti gli altri pianeti.
La seconda domanda non ha parimenti una risposta logica: la base sessagesimale non trova alcun risontro in natura, come avviene invece platealmente per quella binaria (giorno-notte) o decimale (le dita delle mani). E i calcoli relativi ne risultano molto più inutilmente complessi.
A meno che... e se in un'epoca molto remota anche la Terra avesse rispettato le regole della gravitazione, ruotando perpendicolarmente all'eclittica? Invece delle stagioni avremmo avuto una serie di fasce termiche costanti, e una vasta fascia temperata di eterna primavera, senza sconvolgimenti climatici, le piante in grado di fruttificare due e anche tre volte l'anno, gli animali di accoppiarsi e riprodursi senza più limitazioni. Vivendo nell'abbondanza e senza paura di penuria e carestie i primi uomini non sarebbero stati costretti a battersi l'un contro l'altro per accaparrarsi le poche risorse.
E se poi la durata dell'anno in quel tempo fosse stato di 360 giorni? Non sarebbe venuto istintivo ai nostri antichi di dividere ogni cerchio in 360 parti, esattamente come il cerchio cosmico dell'orbita terrestre che vedevano ruotare sulle loro teste?
Ma cosa alterò questa condizione edenica, riducendola alle miserie dei nostri giorni? Secondo Bailly fu una castrofe cosmica, che lui ricavava appunto dallo studio delle antiche tradizioni cosmiche: la comparsa improvvisa del pianeta Venere, che appare di colpo nelle tavole babilonesi dove è del tutto assente prima di una certa data. Avvenimento che probabilmente fu cantato nell'Enuma Elish, il poema sacro babilonese che narra apparentemente di una terribile guerra combattuta nei cieli da divinità litigiose.
Lo spostamento di Venere dalla sua sede originaria a quella attuale, sfiorando la Terra nella sua transizione, provocò lo spostamento dell'asse di rotazione, e insieme impresse un rallentamento alla stessa, portando agli attuali 365 giorni e frazione.
Una teoria che poi in epoca recente fu ripresa anche Immanuel Velikovsky, altro grandissimo astronomo eretico e maledetto.
Ma che soprattutto fornisce una possibile spiegazione razionale a quello che è uno dei sogni costanti dell'uomo, e insieme una nuova speranza: in fondo non si tratterebbe che di raddrizzare di nuovo l'asse terrestre. Ma di questa e altre titaniche imprese tratterò in altre occasioni, cominciando con l'Atlantropa dell'imaginifico Herman Sörgel.
mercoledì 21 marzo 2018
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