domenica 3 luglio 2011


Qualche tempo fa, nella ricorrenza del centenario della nascita, scrissi un articoletto in lode del grande John Dickson Carr. Lo ripubblico qui, perché oltre ai doverosi elogi al maestro, contiene anche qualche considerazione sul genere che forse può ancora meritare qualche attenzione.

IL CENTENARIO DEL CRIMINE MAGISTRALE.

Magari ne abbiamo sentito parlare tutti, ma alzi la mano chi abbia meno di trenta anni e abbia letto un romanzo di John Dickson Carr. Temo che le mani sarebbero pochine, più o meno quelle dei volontari al battaglione per una corvée cucina: chi ha fatto il militare di una volta sa di cosa parlo. E non credo che andrebbe meglio se chiedessi di Carter Dickson, che poi mutato nomine è sempre lui.
Ed è un peccato, perché JDC, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, è stato davvero uno dei grandi dell’altro secolo. Grande in tutto, a cominciare dalla prolificità. Oddio, magari esagero in pessimismo: forse qualche baldo giovanotto conoscerà senz’altro uno dei romanzi che ha per protagonista il dr Gideon Fell, questa specie di Falstaff sornione e idropico, sbuffante come un mantice sfondato, sempre pronto a sollevare il boccale di birra e a giungere a conclusioni azzardatissime. Che tra l’altro è l’unico tra i suoi personaggi attualmente reperibile in catalogo con qualcuna delle sue avventure, non dappertutto e con qualche affanno. JDC è stato pubblicato quasi integralmente in italiano, ma di tutti i suoi romanzi sì e no una decina sono usciti dal circuito delle edizioni da edicola, per approdare nelle librerie. E chi volesse affrontarne la prima lettura non avrebbe altro da fare che ricorrere al difficile prestito di amici, o a esplorazione di bancarelle.
Per JDC niente di nemmeno lontanamente paragonabile all’edizione critica che Adelphi ha dedicato a Simenon. E invece se la meriterebbe, lui che è stato creatore insuperato di iperbolici enigmi, con due temi ricorrenti come una metafora ossessiva: il delitto nella camera chiusa e il delitto compiuto in condizioni impossibili, per esempio sotto gli occhi di numerosi testimoni, condannati a non veder nulla. Eppure quest’uomo, che non ha inventato nulla di originale, che si è limitato a portare all’eccellenza la formula della detection che aveva altri padri, l’uomo che ha reso omaggio a Conan Doyle fino a farsene biografo e epigono, questo scrittore è oggi il meno invecchiato dei grandi vecchi.
Forse è proprio per quel senso di straniamento costante che attraversa tutta la sua opera, quell’atmosfera artificiale che regna nelle sue ville di campagna, nei suoi castelli tenebrosi, nei sui club così inglesi che più inglesi non si può. Ricorda la sensazione costante di “abbellimento delle cose” che ci trasmettono i film di oggi, in cui un’esasperata post-produzione riamalgama e corregge ogni sfrido nelle luci, nei colori, nei suoni fino a consegnarci non la realtà, ma l’idea della realtà che vive solo nella mente del cinematografaro. Ci sediamo, fissiamo lo schermo, crediamo di essere che so a Londra, e invece siamo solo entrati nel paesaggio mentale di qualcuno. Da un’altra parte.
Anche JDC sembra sempre da un’altra parte. O sul punto di andarci. Un americano che vive in Inghilterra e che ambienta i suoi primi romanzi in Francia: cosa si nasconde dietro questa brama di “altrove”? Sulla personalità artistica di JDC ci sarebbe da fare delle belle esercitazioni, se uno volesse. Però non è che dai suoi dati biografici si possa trarre molto materiale. Viene anzi quasi da pensare ad una sorta di vita segreta e nascosta, a uno che magari abbia fatto davvero parte del Servizio segreto, e dico davvero, non come tanti altri hanno fatto credere.
Probabilmente invece la verità è quella più semplice che viene raccontata nella sua biografia (nota: JDC è uno dei non molti giallisti che ha avuto la gloria di essere biografato, il che è tutto dire). Quella di un grande e assiduo lavoratore della parola, innamorato del suo mestiere. Con quel volto che sembra fatto apposta per spuntare da una copertina, che ricorda tanto quello di David Niven. Con la stessa aria sorniona da vero gentleman inglese che sembra fatta apposta per incarnare alla perfezione il tipo dell’attore brillante o dello scrittore anni Trenta-Quaranta, la sua immagine farebbe la gioia di ogni sostenitore dell’esattezza della fisiognomica.
E cosa c’è dietro quella faccia? Trame incredibili, a profusione. JDC ha scritto molto. È una penna del calibro dei Wallace, dei Rohmer. Dei Simenon. È un Balzac del veleno e della pugnalata. Ha al suo attivo un’ottantina tra romanzi e raccolte di racconti. E tutto questo da solo, perché non risulta che abbia mai fatto ricorso a aiutanti o negri che dir si voglia.
E in più scritti per il teatro e radiodrammi. Prima dicevo che non ha inventato nulla: sono stato ingiusto, perché la formula che JDC mette a punto per i suoi radiodrammi, la struttura narrativa ricorsiva, la cornice della voce fuori campo che introduce e termina l’episodio, la miscela di investigazione e terrore, di razionalità criminosa e intarsi soprannaturali, li ritroveremo poi come schema base di tutta la prima generazione delle serie televisive, da Twilight Zone a Hitchcock.
Un David Niven americano, però. Perché nonostante la sua aria inglese, e i baffetti da pilota della Raf, JDC è americanissimo, nato in Pennsylvania. Figlio di un avvocato, è appena un filo più giovane della generazione di espatriati che viene ad abbeverarsi alle fonti europee negli anni venti. È a partire dalla fine del secolo prima che in America è cominciato il riflusso: i padri come Henry James tornano a cercare le proprie radici, i figli come Scott Fitzgerald vengono a spenderci i loro soldi e a cercare il fantasma della felicità. JDC viene anche lui a Parigi, ma non si innamora della città. Anche se la userà come esotico sfondo dei suoi primi romanzi.
La Parigi disegnata da Carr è una Parigi vista con gli occhi della mente. Una post-produzione, appunto. Sognata, esattamente come la Parigi di Poe. E forse Bencolin, juge d’instruction è il personaggio carriano che più deve all’imaginifico di Baltimora. Sprague de Camp una volta, cercando di definire il genere fantasy, ha formulato una sintesi geniale: il fantasy ritrae il mondo non com’è o come è stato, ma come dovrebbe essere. A me sembra che questa formula possa essere estesa tranquillamente all’opera di Carr, specie ai suoi inizi: JDC racconta il crimine come dovrebbe essere. Si aggira nella città vera, vaga per i suoi caffè e nei suoi teatri. Ne respira l’aria immalinconita dal profumo dei fiori, addolcita all’alba dall’aroma dei croissants che escono dai forni. Ci vive in mezzo ma non la vede. O meglio, la vede ma con gli occhi della nostalgia. La Parigi che compare in It walks by night, il suo primo romanzo che è poi l’elaborazione di un racconto giovanile che il piccolo Carr aveva pubblicato sul giornaletto del College, non è la città reale, la grande metropoli in crisi, lacerata da conflitti sociali insanabili, che si appresta di lì a non molto a votare per il Fronte Popolare.
Quella di JDC è la Parigi misteriosa di dieci, quindici anni prima, quando trionfava il Grand Guignol e nelle sue strade misteriose anche Proust poteva sognare che dietro le imposte chiuse si accendessero vicende fascinose degne delle Mille e una notte. I suoi lastricati umidi, le sue ombre sono le stesse dei sogni di Edgar Allan Poe, e sono il regno di Henri Bencolin, sulfureo dandy e giudice istruttore, come si immagina che possa essere dandy un giudice istruttore parigino. L’uomo che indossa lo smoking come abito da lavoro e si arriccia i capelli ai lati della fronte per alludere maliziosamente agli attributi dei diavoli da operetta. In Bencolin c’è molto proprio del Grand-Opèra francese, ma anche delle pochade criminose che ogni notte vengono allestite nel teatrino de l’impasse Chaptal.
JDC gli dedica cinque romanzi, prima di passare la mano ad altri investigatori. È che l’autore cresce in fretta, l’esotismo giovanile, il gusto per il terribile esasperato lascia il posto all’ironia, al gioco intellettuale. Poe e Conan Doyle cominciano a ritrarsi leggermente, mentre si fanno avanti altri mentori, Chesterton (addirittura omaggiato nel fisico del personaggio di Gideon Fell) e P.G. Woodhouse, tanto ripreso nell’arguzia e nell’affabilità da indurre quasi tutti a credere, quando compare la prima storia di sir Henry Merrivale, che dietro lo pseudonimo anche troppo trasparente di Carter Dickson si celi proprio il papà dell’ineffabile Jeeves.
Nel ‘31 è a Londra, e lì rimarrà per una decisa scelta esistenziale e politica fino al 51, quando se ne torna in America, nel momenti in cui il suo amato paese adottivo sembra sul punto di scivolare nelle grinfie del socialismo reale. E John, troppo legato alla sua idea di un’Inghilterra anteguerra, conservatrice e austera, fa le valige. Si può dire che sul triste transatlantico che lo riporta, in cui pure tra i lustrini recuperati dell’ocean liner ancora si respira qualcosa del trasporto truppe, Carr veda allontanarsi insieme con la costa il paese dei sogni, l’età dell’oro perduta. Un’atmosfera rarefatta, che sembra illuminata a gas anche tra i lumi dei saloni di prima classe, evocata magistralmente nell’incipit di Panic in the Box C. Dove la fiancata del piroscafo, schiaffeggiata dai marosi, non è che la vita stessa, piegata a forza da una natura inutile.
Non è un caso che con il ritorno in America si esaurisca anche la fase più creativa del suo genio narrativo. Non che smetta di scrivere, tutt’altro. I romanzi con Gideon Fell, quelli con sir Henry Merrivale si arricchiscono di nuovi compagni, Carr tenta anche la strada del giallo storico, quando non del romanzo storico tout court, con risultati da par suo. L’ombra del grande Conan Doyle è sempre alle sue spalle, anche in questo.
JDC ha fondato le sue fortune letterarie, come una specie di artista circense, sul tour de force. Il suo assunto è sempre invariabilmente lo stesso: come si può commettere un delitto in circostanze letteralmente impossibili? È famosa la sfida che lo contrappose ad altri maestri del crimine: come si può far sparire qualcuno da una cabina telefonica, in piena luce e sotto gli occhi di testimoni? La risposta è ovvia: non si può. E infatti non è mai accaduto. Come del resto si compulserebbero inutilmente gli annali del crimine reale, alla ricerca di un delitto compiuto in una camera vuota chiusa dall’interno. Nessuno è mai stato assassinato così, per l’ottimo motivo che è impossibile.
Perché il gioco funzioni non c’è tanto bisogno della suspension of disbelief, quanto più spesso di una assurdità in premessa, una contraddizione in termini che non si risolve: per quale motivo al mondo menti lucide di assassini dovrebbero complicarsi la vita costruendo artificialmente un quadro assurdo per poi poterlo sviluppare logicamente?
La realtà è che a JDC non interessa assolutamente la veridicità del contesto, ma concepisce la narrazione come una sfida con il lettore in una sorta di partita a scacchi, di cui sia però lui a fissare le regole. Questo naturalmente potrebbe esser detto di tanti altri autori, specialmente dell’Età Classica. Ma nel caso di JDC c’è qualcosa di più, che lo allontana e lo solleva rispetto ai suoi compagni di strada. C’è una sorta di ossessione. La stessa ossessione che più o meno negli stessi anni, o poco prima, aveva portato Harry Houdini a inventare tutta una nuova forma di spettacolo, l’escapologia, anch’essa fondata su una ossessione privatissima: il bisogno di provare anzitutto a se stessi di non poter essere afferrati da niente e da nessuno. Nemmeno dalla Morte. Anche nelle opere di JDC c’è la presenza occulta, la traccia, di una sorta di esorcismo della morte e del crimine. Carr appartiene alla grande Età Classica non per i suoi personaggi in mantello e cilindro, non per le sue vetture enormi in cui ancora si sale invece di sprofondarci dentro, non per la sua ossessione maniacale per gli algoritmi del crimine. Carr è un classico perché crede ancora nell’Ordine, che la vita abbia un fondo morale, che le cose abbiano un senso. La morte può arrivare soltanto in circostanze eccezionali, perché è un’imperfezione nella trama dell’essere, un convitato inatteso che giunge solo grazie alle occulte predisposizioni di quei neri valletti che sono i criminali. Nel mondo di JDC non esiste la morte banale, quella che ti aspetta all’angolo di una strada per rapinarti della vita insieme con il portafoglio. Nel suo mondo i defunti muoiono per vocazione, seguendo nei modi e nei luoghi del trapasso quelle che sono le loro segrete e disperate predisposizioni. E quando il crimine è risolto e il colpevole illuminato al centro del palcoscenico, è ancora una sorta di patto tra gentiluomini che risolve le pendenze di ordine sociale: senza autorità, senza strepiti, senza sirene e manette, senza soprattutto titoli sui giornali, che potrebbero suggerire l’idea malsana che l’Età dell’Oro è terminata. Un suicidio, e la corda del boia si allontana.
All’americano Carr questa storia della corda insaponata, che fa tanto pirateria del secolo XVII, deve proprio essere rimasta impressa, lui che viene da un mondo molto più moderno in fatto di esecuzioni capitali. E ci torna sopra spesso nei suoi racconti, questa immagine della forca è un specie di leit motiv. Sembra quasi che per lui il delitto non sia altro in fondo che proprio questo, una romantica e sportiva sfida con la corda. Il resto è secondario.
Perché in tutti i romanzi di Carr quello che conta meno è il movente: non che non ci sia, naturalmente. Anzi, qualche volta è addirittura banale: odio, invidia, rancore, denaro. Non è quello che gli interessa: il criminale non è un fattore logico, è un agente del meraviglioso. La sua funzione è quella di scompaginare il nostro quadro di certezze, stroncare la monotonia delle nostre esistenze borghesi. Dare un fondamento attuativo a quella che de Quincey chiamava la più bella delle arti, ma non con gli scopi morbosi e sottilmente decadenti del maestro di Poe e Baudelaire. In Carr il delitto ha la stessa funzione del cilindro del prestigiatore, quella di attrarre i nostri occhi, spalancarli e riempirli di meraviglioso.
Ma purtroppo ha scelto un mestiere più difficile, ha uno svantaggio rispetto ai suoi rivali in frac: l’illusionista disalbera la nostra percezione del reale, e mentre siamo lì a bocca aperta ammirati o sottilmente seccati per essere stati presi in giro, si inchina e ci lascia con un palmo di naso, sparendo tra gli applausi. Lo scrittore invece alla fine ci deve spiegare il trucco, ed è lì che arriva il difficile. C’è il rischio che la reazione sia Ah sì? Così semplice? Oppure un Ma va’, non è mica possibile. È il suo rischio professionale, al quale non può mai sottrarsi. Pensate a un E poi non rimase nessuno senza il capitolo finale. Saremmo di fronte a un miracolo. Con la spiegazione, abbiamo solo un memorabile giallo.
In questo senso le soluzioni di Carr sono sempre ingegnose, qualche volta strampalate, molte volte geniali. La conferenza del dr Fell ne The three coffins sul problema della camera chiusa resta un piccolo monumento in materia, continuamente citato. Certo qualcosa JDC se l’aggiusta un po’: le sue case hanno un pianta comme il faut, c’è sempre un vicolo dove deve stare, una porta dove è utile che sia. Se serve la nebbia c’è la nebbia, e quando ci si sposta i mezzi pubblici funzionano alla perfezione, mai un semaforo rosso, mai una foratura. E qualche volta i suoi fondali sono proprio quelli di un teatro, che salgono e scendono quando serve. Più di uno dei suoi circoli di fans ha provato a ricostruire planimetricamente lo scenario dei suoi racconti, e pare che non ci si riesca proprio. Il più gettonato è lo Skull Castle dell’avventura di Bencolin sul Reno: ci si sono provati fior di architetti, ma insomma non si capisce proprio come dovrebbe essere fatto, peggio di una di quelle assurdità zuccherose di Ludwig di Baviera. Ma che importa? Noi vogliamo sapere se il misterioso Maleger, il diabolico illusionista, sia davvero tornato dal regno dei morti: e se poi dalla torre nord non si può passare a quella sud, che si fottano le torri. Più di settanta anni dopo la prima uscita, chi diavolo ci pensa più? Che ci importa, se la forza del mistero evocato a parole ci trascina lui, ci fa fare tutti i salti di torre in torre che servono?

A proposito: se anche per il Nostro partirà la moda degli apocrifi, e qualche editore vorrà lanciare un’antologia à la Dickson Carr, io mi propongo per rifare proprio Bencolin. Il più improbabile: acuto, charmant, lezioso, misuratamente crudele, irascibile. Senza l’insopportabile e un po’ loffia debordanza fisica di Fell, senza l’etilismo manierato di Merrivale. Un vero signore della Parigi che fu, falso come un baiocco di legno. Straordinario.

sabato 4 giugno 2011

Generi


In questi giorni sono stato a Orvieto, gentilmente invitato dai curatori dell'edizione italiana di Weird Tales (sì proprio la mitica rivista di Lovecraft e Howard, riapparsa in veste molto più cool prima in America e adesso qui da noi).

Nella discussione si è finiti ancora una volta all'eterno tormentone: perché la narrativa di genere sia nonostante tutto ancora una sorta di parente povera della letteratura "alta". Discussione che si trascina almeno da cinquanta anni, accompagnando l'emergere via via al successo dei diversi generi.
Negli anni sessanta era il momento della sci-fi, poi sono stati il fumetto, quindi il giallo, ultimamente il noir e il fantasy a sgomitare fino ad affacciarsi sulla porta del salotto buono, varcare la soglia per poi fermarsi appena fatto un passo, come una madame Verdurin capitata per caso a palazzo Guermantes.

Probabilmente la risposta sta nella natura bifronte del genere, una sorta di vero e proprio Giano.
In altri termini, il genere è contemporaneamente il supremo architetto e l'occupante abusivo di quel solenne edificio che è l'immaginario collettivo dei popoli. Prima con squadra, compasso e filo a piombo (sì, ahimé proprio gli ammennicoli della Massoneria)ne getta le fondamenta e ne erige le vertiginose volte. Poi però spesso, invece di allontanarsene compiuta l'opera e volgersi in un dignitoso silenzio verso nuove avventure, vi si alloga dentro, lottizza gli spazi, dà in affitto pezzi di superficie, e insomma si sforza di spremere un qualche utile dal lavoro eseguito. Finendo spesso per trasformare una splendida cattedrale in una specie di Diurno Cobianchi della letteratura.

Bram Stoker foggia a martellate una forma, quella di Dracula, che diventa una categoria dello spirito: Twilight raccoglie semplicemente qualcosa dallo sciocchezzaio adolescenziale dei post-paninari americani e lo impasta su in una confezione iridescente. Val Lewton crea una serie di capolavori low-budget, dimostrando che quando c'è il cervello si può girare un film anche in cucina, Romero reinventa sì il vecchio zombie, ma poi si trasforma in un imitatore di se stesso.

Che sia davvero nel "passare oltre", come diceva il vecchio Nietzsche, il vero segreto della grandezza?

domenica 29 maggio 2011

Atlantide



Gli affezionati lettori che volessero dedicare parte del loro tempo e dei loro soldi alla Porta di Atlantide troveranno verso l'inizio della vicenda un riferimento operistico. L'opera lirica, insieme con le illusioni da palcoscenico, l'astrologia, le donne misteriose e intriganti, i giocattoli spaziali, i motori d'epoca e altro numeroso bric-a-brac, fa parte di quelle due o trecento passioni che mi porto appresso come allegro bagaglio esistenziale, e di cui finisco sempre prima o poi per sminuzzare qualche particolare nei racconti.



Nel caso specifico mi sembra utile postare qui una solenne cantata del brano, tra l'altro per voce della Divina, in modo da rendere un'idea più precisa della questione per chi volesse approfondire.


giovedì 28 aprile 2011

In attesa di Marte, un giro in Atlantide!



Come avevo anticipato al benevolo lettore, è in arrivo l'avventura atlantidea. Per essere esatti, sarà il prossimo 31 maggio il giorno in cui riemergeranno in libreria le rovine del continente perduto.
Ancora una volta, si potrebbe dire. Certo, e per i motivi che spiegavo in un precedente post. Il titolo definitivo come intuito è più user friendly di quello originario, che quindi rimarrà a questo punto un piccolo segreto tra noi. Me lo tengo anzi al sicuro, per riciclarlo alla prima opportunità.

Ma veniamo al dunque. Appongo anzitutto la copertina, non male con quella sua atmosfera vagamente celtico-babilonese, e i marosi in tempesta che squassano l'imponente impianto piramidale delle antiche architetture. Tutto sommato un'immagine perfettamente hollywoodiana, come sarebbe piaciuta proprio a uno dei protagonisti del romanzo.
In realtà di mare nel racconto non ce n'è molto, c'è più Roma con i suoi quartieri eterogenei, un po' di sinistra Maremma, boscose terre balcaniche e altro. Per darvene un'idea sommaria ma spero intrigante vi trascrivo il risvolto:

Vanja è bellissima. Alta come una modella, lo sguardo di ghiaccio e i lunghi capelli completamente bianchi... il suo fascino enigmatico spicca nella sala semivuota dove è in corso una conferenza sulla leggendaria isola di Atlantide. Ovvio che la noti uno scrittore di romanzi gialli, tanto sembra fuori posto in quel luogo. Come è insolito il mestiere che si è scelto in Italia dopo essere fuggita dalla guerra che ha sconvolto la sua patria: la dama di compagnia.
E le sorprese sono appena cominciate: poche ore dopo l’incontro alla conferenza l’anziana signora che Vanja assisteva muore all’improvviso e in circostanze sospette. Una donna che è stata un tempo una famosa veggente, e che ha portato con sé il segreto delle sue visioni. Tra cui proprio la chiave che forse apre la porta dell’isola perduta.
Affascinato dalla giovane slava e trascinato dalla sua istintiva curiosità, il protagonista inizia una personale indagine. Ma presto viene travolto da un turbine di indizi e prove che assumono una luce ancor più sinistra in presenza di nuovi omicidi. Una trama in cui nulla sembra avere senso, e in cui compaiono via via fatti e personaggi sempre più strani. Niente sembra legare un singolare archeologo dilettante degli anni Trenta con un tentativo di colpo di stato nell’Italia del dopoguerra. O gli studi di Galileo sul magnetismo con le ricerche naziste sulle origini della razza ariana. O le sfuggenti ombre di agenti del governo cinese, in caccia di segreti industriali, con il commercio clandestino di reperti etruschi di cui sospetta la bizzarra ispettrice di polizia che lo incalza con le sue indagini.
Nulla, se non appunto le tracce appena visibili di quella antica terra e del suo mistero. Perché è da quella remota tragedia che tutto ha avuto origine. Lo crede disperatamente Vanja, custode di un segreto inconfessabile che ha portato con sé dalla nascita. E comincerà a crederlo anche il protagonista, sempre più sconcertato da quello che va scoprendo: che Atlantide è davvero esistita, che le sue rovine attendono da millenni con il loro segreto. Solo che non si celano nel profondo del mare, ma nella zona oscura della nostra storia.


Segue una breve ma intensa celebrazione delle qualità letterarie dell'autore, che vi risparmio per modestia. Come al mio solito il romanzo è una mescolanza di verità e fantasia, miscelate con artata malizia. C'è da dire che in questo caso la verità è molta, molta di più che nelle altre misture. A cominciare dallo straordinario marchingegno che fa capolino tra le pagine. Che, non ci crederete, esiste davvero...

domenica 24 aprile 2011

Dal cappello del mago!







Credo che nel mestiere dello scrittore ci sia un passaggio obbligato: una storia, un mito con cui prima o poi bisogna confrontarsi. Come un compositore non può eludere di affrontare la sinfonia, o il più informale degli scultori il corpo umano, così nella narrativa esistono delle strutture archetipiche che "bisogna" in qualche modo tornare a raccontare.
E poco importa che ci siano alle nostre spalle dei giganti che lo abbiano già fatto: anche la sinfonia ha avuto i suoi Beethoven e i suoi Mahler, ma non per questo anche il più ardito e dissonante dei musichieri contemporanei può esimersi dal tentare una sua via.

Nel mio caso, lo confesso subito, il mito che mi aspettava all'angolo è quello forse più classico e antico: il mito di Atlantide. Erano anni che mi ripromettevo di penetrare in quel continente favoloso, ma vi ho girato intorno sempre trattenuto dalla consapevolezza che non potesse essere più affrontato alla Rider Haggard o alla Indiana Jones: avventuroso archeologo rinviene misterioso manoscritto, organizza spedizione in terre remote, affronta selvaggi e dinosauri e corona il suo sogno d'amore con bella esploratrice mentre un opportuno vulcano esplode risotterrando i resti tanto fortunosamente trovati.

Così no, bisognava trovare una strada diversa. Parecchio diversa. E poi col tempo, a poco a poco i pezzi di questa storia hanno cominciato ad arrivare dalla fonte meno probabile: la Realtà.
Persone che sono diventate personaggi, libri in cui ho scoperto cose che non sapevo, avvenimenti della cronaca recente e passata che parevano senza spiegazione, addirittura le memorie di un mio prozio spiritista. Tutto questo e altri frammenti scollegati di verità, che a poco a poco sono diventati Il tempio dei re dormienti.

O meglio, questo è il titolo con cui la storia ha abitato la mia mente, perché è probabile che quando essa dovesse trovare la via della stampa lo farà con uno diverso: pare infatti che per qualche misterioso motivo i signori del marketing siano allergici ai titoli di più di tre parole.
Come che sia, il soggetto stavolta sarà proprio quello: il misterioso continente che comincia per A, ma che non si può pronunciare se non vuoi passare subito per stravagante.




Ma tanto qui siamo tra amici, e si può dire.

lunedì 4 aprile 2011

Si parte! - 13


L'affezionato lettore avrà notato come da qualche tempo mancavano aggiornamenti in merito all'avventura spaziale. Questo è dovuto sia alla necessità di portare a compimento una nuova operetta che mi trovo ad avere tra le mani, sia ad un motivo ben più problematico.

Il fatto è che il reattore atomico recuperato dal sottomarino russo in disarmo ha mostrato qualche suo limite, derivante in buona misura dalla non perfettissima tecnologia che gli ha dato i natali, e molto poi dallo stato di abbandono in cui ha versato dopo la caduta dell'Unione sovietica.

In pratica ha cominciato da subito a sversare in giro una certa polluzione di cesio, stronzio e quant'altro, in misura non preoccupante ma tale comunque da suscitare l'occhiuta attenzione degli ispettori dell'Enea. I quali hanno preso a ronzare fastidiosamente in cerchi sempre più stretti intorno al fondo del maggiore Luceri, dove com'è noto era in costruzione il veicolo spaziale.

Per fortuna il provvidenziale arrivo nei nostri cieli della nube radioattiva di Fukushima ha confuso le acque, stornando i sospetti e consentendoci di proseguire il lavoro con relativa tranquillità. L'ingegner Fainthwater ha avuto anche modo di testare gli effetti del reattore su eventuali malcapitati che si trovassero nelle vicinanze al momento del decollo: a tale scopo sono stati utilizzati dei manichini, recuperati dalle esplosioni del '50 nel Nevada, che hanno superato la prova senza troppi danni (accludo a dimostrazione una foto degli stessi dopo il test).

Il razzo è ormai pronto. Gli ardimentosi stanno raccogliendo gli ultimi bagagli e nella prima notte di luna nuova il veicolo si avventerà verso gli spazi siderali, ruggente colonna di fuoco diretta verso l'ignoto!

sabato 5 febbraio 2011

Missione marziana - 12

Come presidente del comitato promotore della spedizione di soccorso, mi corre il gradito obbligo di aggiornare tutti i generosi simpatizzanti e sostenitori sui progressi dell'impresa.
L'arrivo della componentistica proveniente dalle più diverse regioni del globo è ormai completo. Sono state superate numerosissime difficoltà, soprattutto per quanto riguarda il passaggio della frontiera ucraina da parte del reattore nucleare russo, smontato a pezzi e nascosto all'occhiuta sorveglianza delle guardie di confine tra gli effetti personali di un gruppo di profughi uzbechi diretti in Italia.
Più semplice è stata la raccolta dei materiali ferrosi e dell'impiantistica elettronica, fatti passare per imitazioni cinesi.
Per quanto riguarda le barre di uranio necessarie ad attivare il motore, preziosissimo è stato il contibuto del maggiore Luceri, che grazie alle sue entrature nel campo dell'industria nucleare si è adoperato per dirottare sul porto di Civitavecchia un cargo di rifiuti radioattivi destinati alla Somalia.
Egli ha anche messo a disposizione un suo fondo rustico nell'orvietano, dove è in corso l'assemblaggio del veicolo spaziale.
Sotto la supervisione dell'instancabile Timoteo Fainthwater la costruzione del razzo sta procedendo alacremente, come dimostrato dal documento filmato che accludo al post.
A presto per ulteriori aggiornamenti!