lunedì 31 maggio 2010

Bomba!

Pare che il governo russo abbia suggerito a Obama di chiudere la falla sul fondale del golfo del Messico con una carica nucleare.
E sembra che anche loro siano ricorsi allo stesso metodo almeno tre o quattro volte, in analoghe circostanze, con ottimi risultati.
La notizia mi ha confortato, facendomi tornare per un attimo ai dolci ricordi di giovinezza, quando nella calde giornate estive ci si abbronzava allegramente alla luce delle esplosioni atomiche nell'atmosfera.
Giorni indimenticabili, in cui era possibile leggere su Scienza e Vita del progetto di scavare un nuovo canale di Panama a colpi di bombe H, o di rendere fertile il Sahara facendo fare un giro al Nilo (sempre con lo stesso metodo).
Ahimè, allora si poteva ancora sperare che un giorno la fantasia sarebbe davvero andata al potere!
Vi accludo a seguire una poesia e un filmato sul tema di Gregory Corso, uomo che meglio di tanti altri ha saputo interpretare lo spirito di quei giorni.

BOMB

Budger of history Brake of time You Bomb Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling Bomb you are as cruel as man makes you and you're no crueller than cancer All Man hates you they'd rather die by car-crash lightning drowning Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb They'd rather die by anything but you Death's finger is free-lance Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its categorical blue I sing thee Bomb Death's extravagance Death's jubilee Gem of Death's supremest blue The flyer will crash his death will differ with the climbor who'll fall to die by cobra is not to die by bad pork Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff...

giovedì 27 maggio 2010

Ancora sul cover-up marziano -7


Ho appena ricevuto una straordinaria prova fotografica da parte di un anonimo lettore, che credo valga la pena di mettere subito a vostra disposizione.
L'immagine, anche se di scarsa qualità, mostra abbastanza chiaramente i resti del rover marziano, con la sua singolare struttura triciclomorfa che tanto inquietò il Wells, al punto da trasformarla nei suoi vaneggiamenti in una terribile macchina da guerra.
Le figure minuscole che vi compaiono sopra sono membri del Genio militare di Sua Maestà, intenti ad ispezionare le caretteristiche del veicolo, in modo forse da trarne qualche insegnamento attraverso un tentativo di retroingegneria dagli esiti incerti.
Non si hanno notizie del destino successivo della macchina, che scomparve repentinamente dal luogo dell'atterraggio. Non escluderei che negli anni successivi, dopo una serie di tentativi di analisi senza risultati, essa possa essere stata smontata in qualche base segreta dell'esercito e quindi avviata per nave in America, con destinazione gli stabilimenti della Holt Manufacturing Company. Azienda in quel momento più avanzata al mondo nella costruzione di grandi mezzi meccanici semoventi, e l'unica a disporre di tecnici in grado di analizzarne i complessi meccanismi.
Dove comunque non risulta mai arrivata: è quindi probabile che le parti smontate abbiano costituito il misterioso carico segreto del Titanic, che più studiosi sostengono ancor oggi essere all'origine del tragico affondamento.

mercoledì 26 maggio 2010

Altre straordinarie notizie dai nostri eroi! - 6


La contrale di ascolto nell'Arizona ha ricevuto un nuovo messaggio dal colonnello Montague J. Brady, insieme con alcune immagini del pianeta che gettano ulteriore discredito sul cover-up messo in atto da decenni sulla reale natura di Marte.
L'antiquato ma ancor valido sistema di telegrafia consente infatti di trasmettere anche foto, codificate in segnali Morse e poi pazientemente riassemblate a terra dall'operatore.
Quella che ho messo in apertura del post mostra uno scorcio della città di Khandoria, appena raggiunta dai nostri dopo tre giorni di marcia a dorso di mulo lungo la sponda del Gran Canale. Aurore Monti-Smith e il colonnnello Brady vi compaiono abbigliati nei pittoreschi costumi locali, in un momento di relax nella suite messa a loro disposizione dalle autorità della città.
Montague ha già avuto una serie di proficui incontri con l'elite scientifica e politica del luogo, da cui sono emersi una serie di sconcertanti particolari.
Sembra infatti che già nel 1898 i marziani compirono un primo tentativo di raggiungere la terra con un dispositivo per certi versi simile all'aeroproietto di Monti: una nave cosmica spinta non dal metano, gas inesistente sul pianeta, ma dal bombastenio, minerale ad alta concentrazione di zolfo e carbonio dalle caratteristiche esplosive molto marcate.
Quella prima spedizione prese terra nelle vicinanze della città di Londra, ma l'impresa venne frustrata da un penoso equivoco culturale intercorso tra l'equipaggio appena sbarcato e un indigeno casualmente presente sul posto.
Questi, un cazzone di inglese vittoriano, un certo H.G. Wells, fraintese in modo grottesco la natura del grosso rover triciclo che i marziani avevano portato con loro allo scopo di esplorare il terreno e in preda al panico si precipitò a dare l'allarme presso un reggimento d'artiglieria acquartierato nella zona per esercitazioni.
L'ufficiale comandante, già al suo settimo gin-tonic della mattinata, ordinò immediatamente di cannoneggiare gli pseudoaggressori. Purtroppo le coordinate di tiro, elaborate in fretta e furia tra i fumi dell'alcol e comunicate alle batterie per mezzo di sbandieratori egualmente avvinazzati, si rivelarono talmente imprecise da causare la distruzione di numerosi villaggi nella zona intorno, oltre all'affondamento di un'ignara corvetta di Sua Maestà che si trovava a transitare casualmente a poche miglia dalla costa.
Mentre la delegazione marziana riprendeva il volo, sdegnata da una sì incivile accoglienza, per giustificare in qualche modo i danni e le vittime causate da quella sconsiderata reazione le autorità militari non trovarono di meglio che stendere un fantasioso rapporto su una invasione aliena, in realtà mai avvenuta.
Rapporto che fu poi in seguito diffuso a bella posta dal Wells in forma di romanzo popolare, e che ha costituito da allora la base per un'insistita opera di disinformatzia che prosegue ancor oggi.
Amareggiato da quanto andava apprendendo, il colonnello Brady ha assicurato la propria personale solidarietà agli incolpevoli marziani, riconducendo la causa del tutto alla notoria arroganza delle plutocrazie, mai disposte ad ammettere i propri errori e pronte a qualunque sotterfugio pur di salvare la faccia.
Non contento di ciò ha poi messo a disposizione delle autorità della città la sua esperienza di trasvolatore e di combattente, per tentare di riscattare in qualche modo il buon nome terrestre e dimostrare come gli abitanti del nostro pianeta non siano assolutamente tutti uguali, anzi.
Ma su questo promette altri particolari in seguito.

martedì 25 maggio 2010

Commercial


E' arrivata in tutte le librerie (spero) una corposa antologia edita da Piemme: SEVEN - 21 storie di peccato e paura.
Ventuno autori di narrativa gialla, thriller, noir o come volete chiamarla si sono abbandonati a trattare tra i sette il loro vizio/peccato preferito: ne è venuta fuori una triplice architettura che si avvita nel nero dell'anima scendendo sempre più a fondo a ogni pagina.
Io per me ho scelto di narrare l'Accidia: forse il più incerto e aereo dei peccati, una specie di merletto veneziano in cui è il vuoto e l'assenza a determinare la forma, più che non il poco pieno della trama.
Una notte tormentata, un risveglio inatteso, e poi il crescendo del Male su per i monti della Tolfa.
Come fa a esserci il male sui monti della Tolfa, direte? Eppure è proprio così, se uno guarda bene...

lunedì 24 maggio 2010

Trivialliteratur - 2

Un altro elemento che a mio avviso occorre prendere in considerazione nella interminabile disfida tra letteratura alta e bassa è sicuramente il fattore tempo. E' proprio questo infatti che genera spesso una falsa percezione di ciò che è colto e popolare, ed è proprio lui a determinare lo scorrimento di singole opere dall'uno all'altro campo. Oggi nessuno considererebbe l'Iliade o l'Odissea esempi di letteratura popolare, alla stregua che so di un Ponson du Terrail o di un Norbert Jacques, né si sognerebbe di accostare la Divina Commedia alla Locomotiva di Guccini: eppure nella Grecia classica la letteratura alta era quella dei poemi eziologici, o le dissertazioni in versi sulla natura di Empedocle e Pitagora, mentre i cantari omerici o pesudo tali erano affidati agli artisti di strada del tempo, che li intonavano nelle case patrizie e poi nelle strade a scopo di puro intrattenimento. E infatti di quelle storie ne circolavano e decine, e quelle che sono arrivate fino a noi erano certo le più diffuse, ma non per questo necessariamente le migliori.
Persino la Commedia ai suoi tempi fu stimata "troppo popolare" per i palati fini, né Dante fu mai chiamato a insegnare in alcuna università. Diamo quindi tempo al tempo, mettiamoci in mezzo qualche millennio di travagli, un centinaio di guerre, la distruzione di archivi e biblioteche e ci sono ottime possibilità che nelle scuole del XXX secolo i fanciulli si addottrinino sulle vicende di Batman, se come è facile che sia la Critica della Ragion pura si smarrisse tra le pieghe degli eventi.
Da parte mia mi piacerebbe che si salvasse dalla castrofe Sway nella versione di Dean Martin, che accludo al post. Senza un motivo particolare, così solo per far rabbia ai parrucconi.

domenica 23 maggio 2010

Ultime notizie dallo spazio! - 5


Dopo alcuni giorni di silenzio, dovuti all'immensità dello spazio attraversato dall' aeroproietto, il telegrafo nel posto d'ascolto della Western Union nel deserto dell'Arizona ha ricominciato a ticchettare, comunicando al mondo la grande notizia: alle 12,15 del 22 maggio 2010, ora siderale, i nostri due ardimentosi hanno raggiunto Marte!
Dando fondo alle ultime riserve di metano, con una manovra spericolata appresa alla scuola delle Flying Tigers il colonnello Brady ha rivolto verso il pianeta i getti del propulsore, rallentando la velocità di caduta fino ad ammartare con perizia sulla sponda sinistra del Gran Canale, una meravigliosa opera di ingegneria che corre lungo tutta la superficie di Marte da nord a sud, convogliando verso le fertili ma aride praterie della zona equatoriale le fresche acque delle calotte polari.
Non appena i roventi gas di scarico si sono dissipati nella frizzante e leggera atmosfera marziana, aperto il portello e liberata la scaletta il colonnello ha cavallerescamente ceduto il passo alla sua compagna: Aurore Monti-Smith è stata quindi la prima terrestre a calcare le sabbie di Marte, imprimendo con grazia l'impronta del suo piedino calzato Prada alla base della scaletta. Un segno che, stante l'atmosfera rarefatta, resterà probailmente per secoli a rimarcare sia la memoria del glorioso evento che la superiorità del made in Italy in tutto il sistema solare.
Ha quindi preso possesso del pianeta in nome della Confederazione, piantandovi la bandiera con tanto di stars & bars ricamate dalle sue stesse mani, tra l'entusiamo di un gruppo di operai marziani di una vicina stazione di pompaggio, accorsi in massa attirati dal rombo dell'astronave. Dopo di lei è stato il turno del colonnello di pronunciare rapide ma solenni parole di circostanza, al cui termine Montague ha intonato con la sua voce possente Rawhide, canzone che contende a Dixie il titolo di inno della Confederazione, scatenando il delirio della piccola folla che lo ha subito acclamato come il miglior cantante country di ogni tempo.
Purtroppo il sistema di comunicazione ci impedisce di ricevere suoni da Marte: il mio amico americano mi ha comunque inviato una registrazione effettuata dal colonnello in occasione di uno dei numerosi rodei cui si dedicava nel tempo libero, che accludo al post per chi volesse farsi un'idea delle virtù canore dello stesso.
Dopo questa prima sobria cerimonia è subito partita una comunicazione dell'evento verso la città di Khandoria, la capitale del distretto che dista dalla stazione di pompaggio un centinaio di miglia marziane, e al momento i nostri si stanno muovendo in quella direzione, a dorso di una coppia di muli marziani messi a loro disposizione dalla generosità degli indigeni.
Prima però hanno smontato dall'aeroproietto il sistema telegrafico, che trasportano con loro allo scopo di inviare quanto prima alla terra ulteriori notizie della loro straordinaria avventura.

mercoledì 19 maggio 2010

Civiltà del luogo.


Discutevo con alcuni amici l'altro giorno, sui criteri da adottare in caso di trasferimenti in zone sconosciute.
Se devo prender casa in una nuova città, o anche soltanto in un quartiere diverso, come faccio a capire che cosa mi aspetta? C'è un termometro, un indicatore della civiltà cui far ricorso?
I pareri erano diversi, quasi tutti improntati a una certa saggezza economicista. C'era chi sosteneva di andare a guardare le file alla ASL locale, chi di verificare l'esistenza in loco di librerie, chi la pulizia delle strade, i rumori, la rete dei mezzi pubblici. Chi più cinico consigliava prima di attendarsi di controllare l'esistenza di accattoni, posteggiatori, manutengoli vari.
Un amico raffinato vinattiere consigliava di scansare come la peste strade infestate da kebaberie, lavanderie cinesi e internet point. Un altro più metafisico faceva riferimento a teatri e sale da concerto, musei.
Io al riguardo nutro una certezza assoluta: la civiltà di un popolo, e quindi del luogo dallo stesso abitato, è segnata dai negozi di giocattoli.
Non serve andare a scomodare Huizinga: l'amore per i giocattoli è quello che distingue l'uomo dalla belva. Diffidate di quei territori in cui non si apra almeno una vetrina piena di bambole, automobiline e Pinocchi. Là intorno circolano soltanto lupi.

giovedì 13 maggio 2010

Due parole su Emilio Salgari


Non credo esista un solo scrittore italiano di genere, che abbia appena oltrepassato la quarantina, che non sia in qualche modo in debito con Emilio Salgari.
E non parlo assolutamente di temi rubacchiati al Nostro, o di stilemi strutturali o linguistici: anzi, a cercare in giro, sembrerebbe al contrario che da questo punto di vista l’opera del veronese sia vittima di una grande rimozione collettiva. Difficile trovare un riferimento a lui negli infiniti convegni, presentazioni, incontri che nella penisola abbondano intorno al tema del mistero, del giallo o dell’avventura. Persino della fantascienza, alla cui nascita in Italia Salgari dette pure un non piccolo contributo.
Questo sarà forse legato a una nostra costante debolezza esterofila, che anche in questo caso ci porta a magnificare tanta produzione narrativa ben più modesta, per il solo fatto di venire magari d’oltre oceano. E certo le trame del Nostro, affrontate con un piglio risorgimentale e una lingua spesso troppo condizionata dall’ibrido di una mélange tra verismo e dannunzianesimo, forse non offrono più molti spunti alla contemporaneità. No, il debito di cui parlo è qualcosa di più profondo, simile a quell’imprinting che Konrad Lorenz scoprì nelle sue ochette. Un segno che rimane dentro, e che trasforma un’esperienza in una costante del comportamento negli anni a venire.
È questo l’imprinting che Salgari ha realizzato in ciascuno di noi, la sua eredità più preziosa. È il desiderio di narrare. E, soprattutto, di narrare al di fuori di un qualunque schema giustificazionista. Salgari ci ha insegnato il piacere profondo dell’avventura come nuova e imprevista categoria dello spirito, oltre quelle canoniche: l’avventura esiste perché esiste la vita. Ed è un’eredità che ci portiamo dentro come un tesoro segreto, senza parlarne troppo in giro.
Perché in giro, appunto, non se ne parla poi molto. Ma a ben vedere non è poi così misteriosa la causa della scomparsa di Salgari dal nostro orizzonte degli eventi. Il problema è che la sua weltanshaung non è riconducibile a nessuna delle scuole di pensiero che si sono diviso il campo in Italia nel corso del 900.
Sicuramente non piaceva ai cattolici, con quel suo mondo disertato dal sacro, in cui la religione è presente solo nelle forme esotiche del fanatismo o della cecità bruta. Con i suoi eroi passionali, lacerati dai contrasti di un immanentismo spesso disperato, cinici, inclini alla violenza. In cui la solidarietà è presente solo nelle forme del bund germanico, il cameratismo d’armi che accetta la debolezza e la soccorre, ma solo all’interno della lotta e che respinge la viltà come un vulnus inaccettabile. Non piaceva per la lussuria dei suoi eroi, costante ed esaltata nonostante tenui sfumature di linguaggio, per l’ossessivo insistere sulla coppia amore e morte, svincolata da ogni istanza riproduttiva.
Non piaceva ai marxisti, con quel suo paternalismo superficiale nei confronti delle masse, appena temperato da un revanscismo anticoloniale di maniera, per di più a senso unico contro l’Impero inglese. Ma così, più una sorta di idiosincrasia personale che una convinzione ideologica. In Salgari non c’è la denuncia del colonialismo, solo quella di colonialisti cattivi. Ma è tutto il suo orrore invece che traspare violento, non appena in una sua storia appare uno squarcio di popoli non europei abbandonati a se stessi.
Non piaceva per la totale assenza dal suo panorama del mondo del lavoro, in ogni sua forma. Non piaceva per l’idea della lotta e della guerra, se non pure come nicciano come valore in sé, certamente come mezzo di soluzione dei conflitti internazionali, in chiaro spregio al pacifismo della nostra futura costituzione. Non piaceva soprattutto il suo totale disinteresse per l’idea stessa di classe e per l’abbandono fiducioso e disperato all’idea che ciascuno è fabbro del proprio destino. In Salgari raramente l’unione fa la forza: è la forza che semmai cementa l’unione.
Non piaceva ai liberali, per il suo totale disprezzo nei confronti dell’homo oeconomicus e dei valori che questa categoria reca con sé, per la feroce sottovalutazione dell’accoppiata sviluppo economico-sviluppo etico e sociale. Non piaceva per il suo amore per le differenze, che se fosse vissuto oggi lo avrebbe visto sicuramente tra i campioni del no-global più intemerato. C’è in Salgari una concezione delle cose assolutamente pre-industriale: il profitto è per lui non un fine ma un mezzo, anzi verrebbe da dire una sorta di meta puramente psicologica. Da perseguire con lo stesso spirito con cui il gentleman rincorre un record sportivo. Per lui il denaro è ancora tesoro, mai capitale. L’oro è brama e sfolgorio, mai strumento di alienazione.
Non piacque paradossalmente nemmeno alla pedagogia fascista, che pure avrebbe dovuto trovare nei suoi proto-balilla, muscolari e arditissimi, una linfa preziosa nella costruzione dell’uomo nuovo che il regime si riprometteva. Ma c’era l’anarchismo di fondo del Nostro, anche troppo evidente in quella sua continua esaltazione dell’azione individuale e nella glorificazione di quegli eserciti senza stato che sono i suoi tigrotti, i suoi pirati, i suoi regni di fantasia. Niente di più lontano dall’idea di stato etico di gentiliana memoria, troppo è diversa il popolo di Mompracem dalla comunità nazionale vagheggiata dal regime.
Il mondo di Salgari è un mondo di eroi disordinati. Di squadristi, al limite. Ma senza squadracce. Una maggiore sintonia si sarebbe potuta trovare nella sessualità solare e vorace dei suoi eroi, ma c’era il fatto degli accoppiamenti interrazziali, troppo scandalosi per poter essere accettati in un’Italia che si avviava al suo piccolo colonialismo. Che sarà pure stato straccione, come disse Churchill, ma che proprio per questo aveva semmai bisogno di distinzioni precise nella sua fase aurorale.
E certo non piaceva al mondo della scuola, sostanzialmente ancora dominato dal modello manzoniano declinato in tutte le possibili variazioni del bello scrivere. Salgari, con il suo stile ellittico, fluorescente ma anche affastellato, con la sua sintassi sbrigativa e il suo lessico post romantico lontano sia dalla flessuosità crepuscolare che dalla semplicità strapaesana, non era certo un modello da proporre ai giovani. I suoi non erano nemmeno fumetti, da ricondurre in qualche modo alla tranquillizzante palude della cultura di massa. Erano… erano un’altra cosa.
Insomma non piaceva a nessuno. Tranne che ai suoi lettori. Che in fondo erano un po’ come lui: inquieti, fantasiosi, scomodi. E quelli se lo sono portato appresso, anche senza saperlo. Prendete un qualunque giallo, o noir, o avventura scritta in Italia negli ultimi cinquanta anni. Non ci troverete né tigrotti, né corsari, né sovrane d’oriente. Ma appoggiate una pagina di uno qualunque di questi libri contro la finestra, e osservate la filigrana: come in una lanterna magica apparirà un tumulto di corpi e di emozioni, duelli e arrembaggi, passioni violente e disperazioni abissali. Soprattutto apparirà una chiave narrativa singolare, l’idea di una narrazione come punto di equilibrio tra istanza morale e nichilismo assoluto, che ritorna puntuale in tante opere della contemporaneità.
Forse un giorno ci libereremo di lui: scomparirà come la Tonante tra le nebbie di infiniti e inutili blog, arenata tra le secche di una fiction povera e ripetitiva. Un piccolo, triste crepuscolo degli dei, celebrato dal lugubre suono del ramsinga. Saremo tutti un po’ più poveri, e più infelici.

martedì 11 maggio 2010

Apollo Ray Gun.


Grazie a un inatteso colpo di fortuna sono appena entrato in possesso di un raro esemplare di Apollo, la cui assenza dalle mie panoplie arrecava un grave vulnus alla completezza della raccolta.

Costruita dalla Yonezewa come arma da fianco per le truppe coloniali, fu adottata tra molte polemiche dalla spedizione Bernulli nelle paludi arturiane. Sopravvive ormai in pochissimi esemplari, molto difficili da reperire anche sul mercato clandestino.

Questo a seguito dell'esito disgraziato dell'impresa: a oggi non esiste alcuna notizia precisa sul destino dell'infelice colonnello e dei suoi uomini, spariti tra i mefitici vapori del padule ormai da più di cinquanta anni. E trascinando nella rovina tutto il loro equipaggiamento.

L'arma non denuncia però affatto la sua età: caratterizzata da una soluzione all'avanguardia per i suoi tempi, la cella al trizio rotante, se la caverebbe egregiamente anche in un conflitto dei nostri giorni.

Unico suo limite un certo ritardo nella risposta tra l'azione sul grilletto e l'emissione del raggio fotonico, dovuto alla necessità che la cella rotante raggiunga il regime desiderato per l'emissione della carica atomica.
Anche il peso non indifferente la rende senz'altro più adatta come arma d'assedio, che non per un rapido corpo a corpo in qualche taverna d'astroporto. In quel caso il professionista preferirebbe senz'altro una più moderna Rocket Patrol, se non addirittura una Pyrotomic.

La Apollo resta comunque una splendida testimonianza della sua epoca, e dello spirito avventuroso di tanti pionieri che si immolarono nello spazio ignoto stringendola in pugno.

lunedì 10 maggio 2010

La potenza delle tenebre.


C'è una cosa che mi ha sempre colpito, riflettendo sulle vicende della storia umana: il grande potere fascinatorio delle convinzioni errate.

Colombo è convinto che il diametro della terra sia molto più corto della realtà, se ne va in cerca delle Isole Felici e dell'ancor più favoloso Cipango e per fortuna che c'è l'America di mezzo, altrimenti sarebbe finito tra gonnellini di banane e ukulele ad attendere il Bounty qualche secolo dopo.

Francisco de Coronado sente parlare delle sette magiche città di Cibola, si convince che esistano davvero e trascina una banda di desesperados per i peggiori deserti dell'America alla loro ricerca, perdendoseli per strada. Ponce de Leon, convinto che da qualche parte degli spaventosi acquitrini della Florida sgorghi la fontana della giovinezza, li percorre in lungo e in largo fino a rimediare una freccia fatale dai selvaggi locali, infastiditi da tanto scocciatore.

Francisco de Orellana, convinto che nella foresta amazzonica si celi la mitica El Dorado, ci si immerge senza ritegno, accoppando e torturando chiunque trovi per strada in cerca di dritte sulla mitica città lastricata d'oro. Braccato stretto da un altro pazzoide, tal Miguel de Aguirre, preso dalla stessa idea e che passerà alla storia soprattutto grazie allo splendido film di Herzog.

Tra tanti cercatori di meraviglie pare alla fine che i soli a cavare un ragno dal buco siano stati i soliti Nazi, col loro efficientismo teutonico: nel '45 un U-boat in fuga avrebbero perigliosamente risalito l'Orinoco, raggiungendo appunto l'El Dorado, almeno secondo quello che racconta un certo Karl Brugger, che disse di avere informazioni di prima mano al riguardo. Sto approfondendo la questione, e se scopro qualcosa di più preciso mi affretterò a relazionare.

domenica 9 maggio 2010

Svelato il cover-up della Nasa! - 4


Il mio amico americano mi ha appena girato un'immagine ricevuta dall'ufficio della Western Union che si è assunto l'incarico di decrittare i messaggi dallo spazio. Pare che l'antiquato sistema radiotelegrafico stia facendo magnificamente il suo dovere, riuscendo anche a trasmettere immagini del pianeta in avvicinamento.
Per la prima volta abbiamo la possibilità di vedere Marte come è veramente, al di là della spessa cortina di disinformazione stesa dalle autorità federali.
Come individuato a suo tempo da Schiaparelli e da Lowell, la superficie del pianeta rosso sembra percorsa da una articolata serie di canali, troppo regolari per non essere opera di una qualche razza intelligente e operosa.
La rete di canali frammenta il territorio in numerose regioni, su cui compaiono apparentemente dei nomi armoniosi perfettamente leggibili anche a grande distanza.
E' opinione di Montague che tali scritte siano state realizzate dai Marziani con delle grandi fioriere, allo scopo di segnalare ad eventuali visitatori dallo spazio la situazione catastale del pianeta.
Questo probabilmente allo scopo di scoraggiare barbari tentativi coloniali, all'insegna del famigerato res nullius primo occupanti.
Gli strumenti ottici in dotazione all'aeroproietto non consentono ancora di poter entrare nei dettagli del pianeta, e tutti restano in trepida attesa di ulteriori comunicazioni dei nostri ardimentosi.

giovedì 6 maggio 2010

Verso l'orbita lunare. - 3










Cominciano ad arrivare notizie da parte dei due eroici trasvolatori siderali. Purtroppo il sistema di trasmissione dell'aeroproietto, disegnato anch'esso da Monti, è molto vintage, e trasmette in telegrafia Morse. Per cui i messaggi richiedono un po' di tempo per essere decrittati da parte del pensionato della Western Union che si è offerto volontario per lo scopo.
Intanto sono venuto a conoscenza di qualche altro particolare biografico dei due, tra cui un'immagine giovanile di Montague J. Brady, ritratto durante la sua partecipazione a un convegno tenutosi nell'87 a Memphis: il nostro è il terzo in alto da sinistra, riconoscibilissimo per lo sguardo magnetico che emana da sotto il costume sociale.
Il mio corrispondente americano mi ha inviato anche un poster per il quale posò a suo tempo la nonna di Aurore Monti-Smith, la signora Adelina Monti, a sostegno della campagna di arruolamento di piloti freelance per il Flying Tigers Group del colonnello Chennault sul fronte del Pacifico. Questo a riprova dello storico coinvolgimento della famiglia Monti nelle vicende americane, e del suo comprovato patriottismo nonostante la non proprio lineare discendenza WASP.

domenica 2 maggio 2010

In memoria di Jiri Orten.


Non so se capiti anche a voi, ma a me periodicamente succede questo: dal fondo della memoria riemergono persone, fatti e soprattutto parole, senza che apparentemente vi sia nessuna madelaine a evocarle.
E sono sempre le stesse. Possono passare anni, ma prima o poi implacabilmente, come il ritorno di una cometa dal buio dello spazio, all'improvviso si ripresentano.
Questa volta sono i versi di un poeta che scoprii durante gli anni universitari. Ero passato in biblioteca, aspettando una lezione pomeridiana, e mi capitò tra le mani uno di quei libretti bianchi di poesia della Einaudi.
Il nome, Jiri Orten, non mi diceva nulla. Presi a sfogliarlo soltanto per via del traduttore, Giovanni Giudici, che allora mi sembrava e mi sembra tuttora uno dei più grandi poeti dell'altro secolo.
Andai avanti, pagina dopo pagina, senza eccessivo entusiasmo: allora ero affascinato dalle crollanti architetture di Eliot e di Pound, e quanto ai nostri non facevo che rileggere Montale e Sanguineti (senza sapere che si detestassero, anzi a me parevano l'uno lo sviluppo logico dell'altro, ma non dovevo avere le idee chiare).
Invece gli echi rilkiani di Orten mi sembravano datati, e anche i suoi richiami a Rimbaud troppo crepuscolari.
E poi volto ancora una pagina, e trovo la Settima Elegia. E resto folgorato.

"Vi scrivo, Karina, e non so se siete viva,
se già non siete dove non più esiste desiderio,
se nel frattempo è finita la vostra rischiosa età.
Siete morta? Chiedete alla vostra pietra di farsi lieve,
chiedete alle rose, signora, di appassire..."


Solo molto tempo dopo e grazie a Internet ho scoperto come suonavano nell'originale i versi, a cominciare dal primo: "Píši vám, Karino, a nevím, zda jste živa..."
E senza sapere una parola di Ceco ho cercato più volte di sentirle nella mente, in una pronucia probabilmente immaginaria, fino alla chiusa altrettanto straodinaria:

"...e da Dio abbandonato, e abbandonando Dio,
vi scrivo, Karina, e non so se sono vivo..."


...vám, Karino, a nevím, zda jsem živ... perché mi ricordo di te, Jiri? Un uomo che non ho mai conosciuto, che forse nemmeno avrei notato, se ti avessi incontrato in una strada intristita della tua Praga occupata. Una città che non ho mai visto, che immagino soltanto attraverso il racconto di Ripellino, e le sequenze di Delitti e segreti, il film di Soderbergh su Kafka?
Cos'hanno veramente di magico le tue dannate parole, non lei? Perché non riesco a dimenticarle?